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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

La dottoressa Chiara Dentone: “Noi, il dream team di Malattie Infettive. Ogni giorno una dura partita”

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di MATTEO GERBONI

Ore 8 meno qualche minuto di un lunedì mattina degli ultimi 70 giorni. Clinica di malattie infettive dell’ospedale di San Martino. Trenta persone, tra medici e specializzandi che lavorano divisi su tre piani, sono nel corridoio per la prima riunione della settimana. Tutti in piedi e con le mascherine per rispettare le distanze di sicurezza. Si sente distintamente l’odore dei farmaci e dei disinfettanti, in sottofondo il rumore di macchinari e respiratori.

Inizia una nuova settimana, un’altra sfida da far tremare i polsi. Un’altra battaglia dura contro il nemico invisibile. Gli occhi sono stanchi, evidenti gli ematomi causati dallo sfregamento delle mascherine, ma nessuno arretra di un millimetro. È stato come tuffarsi in un mare in tempesta: dentro una patologia sconosciuta, eppure cinquanta persone nuotano senza sosta.

Chiara Dentone, 41 anni, dirigente medico, è la responsabile del piano ‘meno1’, dove vengono concentrati i letti dei pazienti affetti dal Coronavirus. È arrivata a novembre da Sanremo, è il braccio destro del primario Matteo Bassetti, uno dei volti più noti e rassicuranti della lotta la Covid-19.

Dentone ha uno sguardo sereno, di quelli che subito ti trasmettono empatia. Basta osservarla per capire che non si ferma mai. Corre da una stanza all’altra. Si preoccupa di tutti.
Parla con il cuore in mano, lasciando trasparire una grande umanità.
Il suo messaggio è forte. Come il titolo: “Sono orgogliosa di far parte di questo dream team”.

Una testimonianza che vale un trattato scientifico: “Non siamo eroi. Facciamo il nostro lavoro con competenza, volontà e siamo tosti. Dieci, quattordici, sedici ore al giorno nelle settimane più complicate. Tutti i giorni. Perché ogni mattina è una nuova storia che ricomincia, sempre diversa. Sempre più dura, come un’onda che acquista potenza. Ma la nostra grande forza è il gruppo, una macchina funziona bene perché funzionano bene tutti i suoi ingranaggi. Siamo uniti, dove non arriva uno, ci pensa l’altro. Siamo al fronte e ogni giorno mettiamo sempre più energia, nonostante la stanchezza. A volte ci diciamo quasi sotto voce ‘Noi lo sconfiggeremo’. È diventata una parola d’ordine”.

Cadenza le sillabe, stringe le mani a forma di pugno: “Noi siamo più forti. Perché il virus ci ha uniti, ci ha fatto diventare un gruppo compatto. Inscindibile. Una squadra vera. Medici, specializzandi, operatori socio sanitari, infermieri e gli addetti alle pulizie, figure indispensabili che svolgono un lavoro straordinario. Ogni mattina chiunque entri in reparto porta una parola positiva per i colleghi che smontano dopo una notte estenuante”.

Riunione collettiva al lunedì e al venerdì, quindi briefing più veloci le altre mattine per aggiornarsi sulle novità della notte, poi si scende in campo per una partita che non ammette errori.

Ogni giorno la divisa, tute, camici e sovrascarpe, cuffia per i capelli, la mascherina che lacera le orecchie, la visiera, il sudore, caldo, fame, sete, paura.

Da quando è scattato l’allarme, lei e tutti i professionisti del reparto quelle tute le devono indossare ogni giorno, più volte. Tempo necessario: dai 5 ai 10 minuti a ogni vestizione. “Lavoravo alla Asl di Sanremo, lì avevamo fatto le prove di vestizione delle tute e degli apparati protettivi nel 2009, quando studiavamo le procedure da applicare in casi eventuali di Ebola: ma non era mai capitato di indossarle davvero. Nessuno entra nelle stanze da solo, si deve essere sempre controllati da altri. Tutto è fatto in squadra e ognuno sa già quali sono i suoi compiti, ogni malato ha un medico, un infermiere e uno specializzando deputati a seguirlo”.

La mattina scorre piano tra le visite nelle stanze a un letto per i più gravi, in quelle doppie, con strumenti di protezione tra i letti, per gli altri. Per chi è in via di guarigione il consulto può avvenire anche attraverso un tablet (“ne abbiamo quattro per piano”), poi un altro confronto alle 13 e nel pomeriggio i nuovi ingressi, altre visite ai pazienti più complessi. “In questi due mesi abbiamo trattato solo pazienti affetti da Covid, le altre malattie infettive è come se fossero andate in ferie. Un fenomeno che ha coinvolto anche altre specialità, chi era affetto da altre patologie per paura ha voluto restare a casa, le accettazioni al pronto soccorso si sono ridotte, quasi azzerate. A proposito di altre specialità, mi ha colpito molto in questi mesi lo spirito di collaborazione trasversale. Un’efficace e rapida trasmissione di conoscenze e proposte. Una grande voglia di combattere insieme e una straordinaria disponibilità da parte di tutto il personale. Penso soprattutto ai colleghi del pronto soccorso e delle rianimazioni. Ho visto tanto impegno, dedizione e, sì, anche molti sforzi straordinari”.

Accanto a questo carico di emozioni forti, c’è quello legato alla relazione con i parenti. “Perché una delle cose più strazianti di questa situazione è che i pazienti ricoverati sono soli. Sono isolati e a loro volta i loro cari sono in quarantena. E accanto ai pazienti, quantomeno fisicamente, ci siamo solo noi medici ed infermieri”.

Un legame a distanza, via telefono ancor più complicato rispetto all’ordinario. “I famigliari dei pazienti ovviamente vivono una condizione di paura. Paura per non essere riusciti a fare in tempo a dire qualcosa di importante ai propri casi, paura che magari non venga curato a dovere, paura di non poterlo più vedere, ma capiscono subito che da parte nostra c’è la totale disponibilità a farci carico dei loro timori e delle loro semplici e commoventi richieste. Li chiamiamo una volta al giorno”.

Tutto questo rende ancor più difficile gestire le emozioni, scaricare l’ansia, l’angoscia, la paura. “Di solito nel tempo ripensi spesso a quei pazienti che hanno avuto un percorso complesso e magari non sono riusciti a superare la malattia. Ti poni delle domande, ti sforzi di capire se hai sbagliato qualcosa. Ti senti quasi in colpa. Ma in queste settimane sono stati proprio molti parenti di questi pazienti sfortunati a trasmetterci tanta forza. Hanno capito che abbiamo dato tutto noi stessi, che i loro cari sono stati curati, accuditi e protetti per quanto era nelle nostre possibilità sino all’ultimo e sono arrivati tanti messaggi di ringraziamento”.

La corrispondenza con il reparto è fitta: “I gesti di affetto e stima che riceviamo quotidianamente ‘scaldano il cuore’. Riceviamo meravigliosi messaggi di gratitudine e incoraggiamento da parte dei pazienti oramai a casa e dalla gente comune. In tanti in queste settimane ci hanno aiutato con piatti caldi o dolci. Non ci siamo mai sentiti soli”.

Su WhatsApp tanti grazie, “quanti amici mi hanno scritto, è stato commovente”, mentre a casa una figura preziosa capace di regalare un aiuto morale straordinario: “Sono stata molto fortunata. Mio marito mi ha dato grande forza. Ha capito che in questo periodo drammatico una persona che fa il mio mestiere deve essere in prima linea. Era tranquillo sin dall’inizio perché mi vedeva tranquilla. Ho ricevuto un grande appoggio da lui, davvero. Mi ha sostenuto tutti i giorni”.

Chiara è originaria del Tigullio. “Sono nata a Castiglione Chiavarese – racconta con orgoglio – ho frequentato il liceo a Chiavari. I miei genitori vivono lì, ora non li vedo da tre mesi, ma torno sempre volentieri in quelle zone. Tutti i giorni appena esco dall’ospedale, tornando a piedi verso la mia casa, chiamo mamma e papà. Sono ferratissimi sui dati dei contagi e papà ogni volta mi saluta dicendomi ‘stai attenta’, e quella raccomandazione mi resta nelle orecchie sino al giorno successivo”.

Parola di chi si sforza di vivere la sua professione “a 361 gradi. Quell’1 è il cuore, l’unico che fa davvero la differenza”, parola di chi ha imparato a vigilare su quel sottile passaggio tra vita e morte. “Ho respirato tante ore dentro la fp3, ho sudato dentro la tuta, senza bere e mangiare. La sera non senti più gli occhi e le mani, ma ogni giorno sei sempre più orgogliosa di far parte di questo dream team”.

Non è ancora finita. Ma ce la faremo.

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