di NICOLA PEIRANO *
È il 2005 quando Kouassi Mamadou decide di andarsene dalla Costa d’Avorio. Insieme a suo cugino compie un viaggio che finirà in Italia solo tre anni dopo, al termine di peripezie terribili attraverso il deserto del Saharae le prigioni libiche. Ed è proprio dalle coste della Libia che è partito anche Fofana Amara, un minorenne che alla guida di un’imbarcazione di fortuna ha portato in salvo centinaia di migranti.
Dalle loro storie Matteo Garrone ha attinto per “Io capitano”, premiato col Leone d’argento a Venezia e in corsa per rappresentare l’Italia agli Oscar. Protagonista del film è Seydou, un ragazzino che, contro il volere di sua madre, convince il cugino Moussa a lasciare il Senegal in cerca di un futuro migliore.
Garrone opta per una chiave narrativa diversa rispetto ad altri autori che hanno provato ad affrontare il dramma dei migranti. Spesso il cinema italiano ha preferito soffermarsi sul secondo tempo del viaggio, raccontando l’arrivo e la difficile integrazione in un nuovo tessuto sociale ma dalla prospettiva privilegiata dell’occidentale benestante. Questa volta, invece, lo sguardo dello spettatore diventa lo stesso di chi compie il viaggio, un approccio mimetico radicale che esclude il punto di vista dell’uomo bianco e da cui deriva ad esempio la scelta di far parlare gli attori in “wolof”, la lingua del Senegal.
Il risultato è un racconto epico che ha l’impianto classico del viaggio di formazione, un’odissea moderna incentrata sulle ragioni di chi parte e sulle ricadute psicologiche di tale scelta. L’obbligo di attenersi al reale riesce a sposarsi con la chiave più favolistica, due istanze che qui convivono ancor più felicemente che in altri film dell’autore.
La storia di Seydou ha del resto qualcosa in comune con quella di Pinocchio. Anche il precedente film di Garrone era infatti la storia di un “migrante”, un burattino che si avventura dentro una società fatta di contadini e straccioni. In “Io capitano” Garrone riesce a mitizzare il viaggio proprio grazie a figure archetipiche di matrice collodiana, ai tanti gatti, volpi e mangiafuoco che Seydou incontra. Il ricorso ad elementi letterari, ma anche ad allegorie e a incursioni nell’onirico, gli permettono perciò di allontanarsi dal perimetro del dibattito televisivo attuale, di non scadere nell’ideologia fornendoci comunque una morale conclusiva come nelle migliori fiabe.
Alla fine del suo viaggio Seydou/Pinocchio è costretto a essere scafista e quella migrazione, nata più per voglia di emancipazione che per necessità, acquista finalmente un significato: il protagonista capisce di dover solidarizzare con le altre etnie di cui diventa guida e protettore, e che il suo destino è quello di essere un esempio per se stesso e per gli altri. Garrone riesce così dove tanti hanno fallito, raccontando con consapevole leggerezza la drammaticità di un fenomeno senza politicizzarlo, e mettendo lo spettatore nei panni dell’altro per fargli capire quanto starebbero stretti anche a lui.
(* Sceneggiatore per il cinema e per la televisione)