di DANIELE LAZZARIN *
Mirabilmente adattato dalla monumentale biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin, American Prometheus (Premio Pulitzer 2006), Oppenheimer, sceneggiato e diretto da Christopher Nolan, sta incontrando un grande successo di pubblico nelle sale cinematografiche e insieme a Barbie, film di tutt’altra concezione, sta dando vita a un fenomeno culturale già definito negli Stati Uniti ‘Barbenheimer’, che se non altro ha il merito di ricondurre le persone al piacere di vedere il cinema sul grande schermo. A questo concorre l’uso per Oppenheimer della pellicola IMAX 70mm, per scene a colori e, in particolare nell’ultima parte del film, in bianco e nero: si tratta di una tecnologia che esalta i dettagli visivi e gli effetti coloristici, soprattutto nella proiezione a grandi dimensioni, anche se una piena fruizione è possibile solo nelle sale adeguatamente attrezzate e predisposte, pochissime in Europa e purtroppo assenti in Italia.
Con la consueta, labirintica, abilità narrativa Nolan mette in scena con diverse stratificazioni non solo la vicenda personale di J. Robert Oppenheimer, “padre della bomba atomica”, posto a capo del progetto Manhattan che condusse alla sperimentazione e alla piena realizzazione dell’arma che segnò la definitiva conclusione della Seconda Guerra Mondiale, ma fa anche del Trinity test l’evento, il perno, intorno a cui ruota tutta la storia del ‘secolo breve’, il Novecento, e da cui ha origine una nuova cosmologia e la stessa attuale percezione del mondo, preannunciando il futuro in cui noi oggi siamo inseriti.
Il nome in codice ‘Trinity’, che doveva indicare il primo test nucleare della Storia, avvenuto il 16 luglio 1945, fu probabilmente suggerito allo scienziato dalla lettura di una poesia di John Donne e ha una risonanza mistica, come la scena dell’esplosione, che, pur lontana, sovrasta con le sue luci abbaglianti l’attesa spasmodica degli sperimentatori e degli spettatori, colpiti nuovamente dopo attimi che appaiono interminabili da un terribile tuono. E risuona nella mente di Oppenheimer, come realmente egli riferì anni dopo, un verso della Bhagavadgītā già prima udito nel film: “Adesso sono diventato Morte, il distruttore di mondi”; sono le parole con cui Krishna, auriga dell’eroe Arjuna e avatar del dio Vishnu, si svela nella sua forma a molte braccia di fronte al principe angosciato all’idea di uccidere parenti e nobili amici, che ora scorge nella schiera dell’esercito nemico. Vuole così esortarlo a compiere il suo dovere con il giusto distacco, senza identificarsi nelle proprie azioni. Ed è questo l’atteggiamento interiore che il protagonista, interpretato da un Cillian Murphy, sofferto come ai tempi de ‘Il vento che accarezza l’erba’ di Ken Loach, cerca di conquistare nel prima e nel dopo rispetto a questo momento di grande efficacia spettacolare, con effetti realizzati da Nolan senza ricorrere alla computer graphic, ma anche carico di implicazioni rispetto allo svolgersi successivo dell’intreccio storico-narrativo.
Prima del Trinity test assistiamo ai classici passaggi di una struttura epica: il superamento da parte dell’eroe dei turbamenti e dei conflitti giovanili, le scoperte e i progressi nello studio della fisica quantistica, le sue pionieristiche ipotesi sulla presenza dei buchi neri, i suoi incontri con le più grandi personalità della comunità scientifica e con ambienti politicamente ed emotivamente significativi, con l’amante e con la futura moglie (Emily Blunt), fino alla ‘chiamata’ del generale Groves (Matt Damon) che gli affida il progetto Manhattan. Dopo la più grande prova, quella del Trinity test, tutto si trasforma: il film assume i toni cupi del noir, con i sensi di colpa del protagonista (a cry baby scientist lo definisce il presidente Truman), con la sua presa di posizione contro la bomba all’idrogeno e contro l’indiscriminata corsa agli armamenti, finché egli finisce sotto inchiesta: molti nell’era del maccartismo e della ‘caccia alle streghe’, in un’America che tradiva i suoi principi democratici, subirono la stessa sorte per il sospetto di connivenza con il comunismo o addirittura di spionaggio, ma lui come imputato non aveva uguali. Tuttavia nel film questo è anche il momento del suo riscatto morale, con il futuro smascheramento del suo principale avversario e con il messaggio finale lasciato all’umanità.
Il ‘prima’ e il ‘dopo’ sono però concetti che poco sembrano adattarsi allo stile e ai criteri di montaggio di questo autore (basti pensare a Interstellar e a Tenet), in particolare in un film che evidenzia i mutamenti di prospettiva nella visione di tempo e spazio della fisica moderna; anche la “Morte”, a cui allude Krishna, non è altro che la traduzione dal Sanscrito dell’idea del tempo che tutto distrugge e trasforma. E Oppenheimer, nella realtà come nella finzione e nell’immaginario del film, studiava il Sanscrito, conosceva il Cubismo, aveva quadri di Picasso nella collezione di famiglia e leggeva The Waste Land di T. S. Eliot… Ecco quindi il continuo alternarsi di flashback e flashforward nel continuum mentale del protagonista e nella tessitura della narrazione, ecco il presentarsi come in una visione o in un’allucinazione di immagini della materia e dell’universo nella sua genesi e nel suo divenire, con un chiaro riferimento a The Tree of Life di Malick, dove non a caso la “piccola storia” di una famiglia si inserisce nell’immensità di una dimensione cosmica ed esistenziale. Non mancano elementi simbolici, come l’immagine agli inizi del film della mela avvelenata, che forse allude al peccato originale della Scienza o forse alla mela con cui si sarebbe avvelenato Alan Turing (matematico eroe di The Imitation Game). Vi è poi, come in una struttura circolare, il ripetersi dell’incontro con Albert Einstein (Tom Conti), archetipo del saggio, che da un lato sembra risolvere un enigma rimasto irrisolto nel film, dall’altro lascia irrisolto un quesito scientifico che si apre a un’oscura profezia per l’umanità.
Tutto il film, o quasi, è in realtà una soggettiva attraverso cui il protagonista rievoca, mentre viene interrogato e arbitrariamente accusato dalla commissione di inchiesta, il percorso della sua vita e la sua visione dell’universo; questa centralità strutturale del processo, mai definito tale dagli ipocriti inquisitori, rivela la colpa dalla quale il protagonista cerca di riscattarsi: il compromesso della Scienza con il potere, come per Bertolt Brecht nella Vita di Galileo, dramma riconnotato dall’autore tedesco durante la guerra fredda.
La colonna sonora, dai toni alti e pervasivi, quasi a preannunciare il giudizio finale, insieme alla durata del film e a una certa sua complessità e oscurità, che non trascura in qualche momento le sfumature del grottesco, possono lasciare attonito e confuso, ma certo non indifferente, lo spettatore.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)