Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.
di MATTEO MUZIO *
Quello fatto da Donald Trump alla sua seconda inaugurazione presidenziale non è nemmeno definibile come discorso. Nemmeno se lo andiamo a confrontare con la sua prima orazione presidenziale: il tono del discorso soprannominato “American Carnage” era senz’altro trumpiano ma la struttura era quella classica, di un’orazione con al centro l’America e il suo destino. Stavolta abbiamo avuto invece una lunga lista della spesa fatta di ambizioni imperialiste fuori tempo massimo, di attacchi alle politiche care alla sinistra progressista soprattutto sui temi cari alla comunità Lgbtq+ e di minacce velate a chi lo ha “perseguitato” in questi quattro anni appena trascorsi e la promessa di grandi deportazioni di migranti irregolari, fatti con raid mirati nelle città governate dai democratici, partendo da quella che ha visto crescere politicamente il suo grande rivale e predecessore Barack Obama.
Su tutto però c’è il concetto che lo ha reso famoso: America First. Non vuol dire che sia una novità storica, anzi, tutta la storia americana è stata percorsa da fermenti nazionalisti, impulsi razzisti e persino spinte classiche di imperialismo, alcune nel presidente citato proprio da Trump: William McKinley, in carica dal 1897 al 1901, che portò a termine l’annessione delle Hawaii e rese Cuba un protettorato statunitense. In questo caso però vuol dire che ancora una volta l’America guarderà meramente al proprio interesse particolare, senza l’afflato internazionalista che la caratterizza almeno dal 7 dicembre 1941, giorno dell’attacco giapponese a Pearl Harbour.
Sono passati oltre ottant’anni da quel momento e forse quello spirito si è ormai dissolto. Sarebbe una lettura troppo facile dire che Trump ha vinto grazie ai “dimenticati” dall’establishment dem. Anche Trump sin dalle prime ore lascerà indietro milioni di suoi concittadini gay, lesbiche e trans, così come darà molto pensiero a quelle famiglie che hanno parenti con uno status d’immigazione incerto e non del tutto legale. Trump però ha colto un sentimento prevalente negli americani di ogni ceto: non vogliamo più preoccuparci per ciò che accade nel resto del mondo e non vogliamo più essere tirati per la giacchetta dai conflitti. Trump forse manterrà la promessa o forse no: la sua definizione dei cartelli messicani della droga lascia presagire che a un certo punto della sua presidenza possa lanciare una “operazione militare speciale” contro il vicino latino-americano. Questo sentire però è condiviso anche dai magnati delle piattaforme tech, schierati uno accanto all’altro, davanti ai membri del governo in pectore, immagine plastica di una nuova oligarchia che ha gettato la maschera di inclusività.
Fino a qualche anno fa solo alcune voci isolate come di Ellen Pao, ex amministratrice delegata di Reddit che da anni combatte contro un muro di gomma fatto di soli uomini che rende l’ambiente di lavoro del tech molto maschilista e tossico. Il suo libro, La Guerra di Elleen, uscito in Italia nel novembre 2018, ha avuto poco riscontro. All’epoca, infatti, questi big che hanno sostenuto convintamente Donald Trump (anche con toni melliflui e pilateschi come nel caso di Mark Zuckerberg, padrone di Meta e delle sue piattaforme Facebook e Instagram) erano considerati pilastri indiscutibili della coalizione democratica. E qualcuno ha fatto finta di non vedere, con qualche lodevole eccezione come quella rappresentata dalla senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Ad ogni modo, troppo poco e troppo tardi. Questi signori vogliono semplicemente che il loro status semi-monopolistico non venga toccato. E pensare che molti dei consensi persi negli anni dai democratici e dalla sinistra liberal in generale è proprio dovuto alla minimizzazione del loro impatto sulla vita quotidiana, anche a livello di distruzione di posti di lavoro. Ora che i dem si apprestavano a far finire i loro regimi fiscali agevolati, si sono rivolti senza indugio al nemico di ieri, che prima li definiva come “il conglomerato della censura” e oggi invece li abbraccia e gli consegna nuovamente i destini degli americani.
Di tutto questo però nel discorso presidenziale non c’è stata traccia. La gran parte dei commentatori è stata distratta dalle sue sparate vittimiste e da annunci come quello che lascia presagire un blitz nella zona del Canale di Panama per “riprenderselo”. Non si sa se questo avverrà. Ciò che però sta già succedendo riguarda il destino di un popolo americano che sempre di più, dopo aver abbandonato la lettura dei giornali e l’ascolto dei media tradizionali, si affida a quello che l’algoritmo gli propone e si fa disinformare da una congrega di supermiliardari tra i quali sono spariti quelli provenienti dal mondo manifatturiero e dell’energia che per anni rappresentavano un pilastro della coalizione repubblicano. Peccato che la democrazia americana sia pressoché nata grazie alla libertà di stampa e questo suo graduale indebolimento sta portando verso l’erosione delle sue istituzioni politiche. Con la complicità di un presidente che forse non è il più pericoloso delle persone presenti nella Rotonda del Campidoglio il 20 gennaio 2025.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)