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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

Il partito democratico ha perso la battaglia della narrazione

Mentre le debolezze del ticket democratico hanno tenuto a casa molti elettori ovunque, l’exploit di Trump ha portato più persone alle urne di quelle che si credeva possibile
Kamala Harris è uscita pesantemente sconfitta dalle elezioni americane
Kamala Harris è uscita pesantemente sconfitta dalle elezioni americane
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di EMANUELE MONACO *

Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

La sconfitta di Harris della settimana scorsa ha preso alla sprovvista molti, sia esperti che no: non perché fosse improbabile, anzi, ma per la sua portata, per il suo essere netta e completa. L’aspetto più destabilizzante è stato soprattutto la disconnessione con i risultati di candidati e referendum locali che hanno ottenuto molti più voti del ticket presidenziale, limitando i danni per il Partito Democratico al Congresso.

Mentre le debolezze del ticket democratico hanno tenuto a casa molti elettori ovunque, l’exploit di Trump ha portato più persone alle urne di quelle che si credeva possibile, soprattutto uomini sotto i cinquant’anni, bianchi e latini principalmente. Il tutto dopo una campagna con una scarsa presenza sul territorio, elemento che invece caratterizza molto di più la strategia democratica. La causa di tutto ciò sarà l’argomento di migliaia di articoli, discussioni, seminari e conferenze nei prossimi mesi, almeno finché non si tornerà in campagna elettorale tra un anno e mezzo. Le accuse incrociate nel Partito Democratico sono già iniziate, da ogni parte. Volendo essere onesti, tutte le dichiarazioni che si stanno succedendo in questi giorni, con voti ancora da scrutinare, offrono poco in termini di analisi. Dichiarazioni di campo, più che vere e proprie ricette politiche. 

La verità che pochi vi diranno è che non si sa precisamente perché Harris abbia perso e forse non lo si saprà per molto tempo, se non quando non sarà neanche più interessante saperlo perché avremo un altro ciclo elettorale di cui parlare. A quel punto sarà materia da libri di storia, che al massimo poche centinaia di persone nel mondo leggeranno. Possiamo tuttavia trovare un filo che ci aiuti a capire in che contesto arrivi questo risultato. Le posizioni del dibattito al momento sono le più disparate e probabilmente hanno tutte una parte di verità: Biden doveva ritirarsi prima e permettere delle vere primarie aperte. L’ondata di risentimento che ha colpito governi di ogni tipo in tutti i Paesi occidentali ha azzoppato in partenza ogni possibilità di essere competitivi. Harris, al netto di proposte popolari, non è riuscita mai a connettere con quella che viene identificata come working class: troppo centrista per alcuni, troppo radicale per altri.

La questione forse dirimente, che permette di connettere tutti questi fattori, è però un’altra, più larga e complicata da affrontare. Riflettendo, probabilmente se il GOP non avesse avuto un candidato così divisivo, violento e volgare, avrebbe potuto vincere con margini ancora più larghi, costruendo davvero quella – fino a poco tempo fa improbabile – coalizione multirazziale della working class che segnerebbe l’inizio di una nuova era politica in America.

Trump ha dopotutto vinto senza avere una strategia chiara e studiata, senza fare proposte dettagliate, senza avere una rete locale di attivisti che bussasse porta a porta negli Stati chiave. Ha vinto sulla sua capacità di narrare sé stesso e la sua base, certo, ma anche sulla sua bravura nel narrare l’avversario. La battaglia del brand è stata persa dal Partito Democratico già da diversi anni, e Harris non ha fatto altro che confermare un’opinione che molti si erano già fatti. In moltissimi sondaggi preelettorali la metà degli elettori aveva infatti già un’opinione di Kamala Harris come estrema e di sinistra, pur con una campagna tra le meno radicali, nei temi e nelle proposte, degli ultimi anni.

La disaffezione con lo stato economico del Paese, sentita dalla stragrande maggioranza degli americani, fa infatti da sfondo a una strategia molto più lontana nel tempo. Trump ha dato la risposta alla domanda che il Partito Repubblicano si fa dalla fine degli anni Duemila: come costruire una coalizione multirazziale di elettori working class che ci renda competitivi nella Rust Belt e nella Sun Belt allo stesso tempo? Semplice, dice Trump: dipingiamo i democratici come un partito alienante di élite culturali di Wall Street, Hollywood e Ivy League (operazione facilitata da un elettorato democratico sempre più concentrato tra persone con titolo di laurea) e capitalizziamo sulla rabbia anti-establishment di larga parte della popolazione americana.

L’idea, dalla facile presa, che il Partito Democratico non avesse a cuore le questioni di lavoratori e classe media ma fosse interessato più a non perdere punti con le facoltà di scienze sociali delle università, a vincere guerre culturali sul linguaggio e ad accusare gli uomini bianchi di essere dei bigotti privilegiati ha una presa profonda nell’immaginario di tanti ed emerge anche dai dati. Aggiunta all’impressione di un Paese in preda al caos (economico, migratorio e geopolitico), ecco che quel conservatorismo della rabbia espresso da Trump, anche violento e volgare, diventa molto più attraente e spinge molti a restare a casa.

Non vuol dire, come alcuni suggeriscono, che ai democratici basti abbandonare oppure moderare il messaggio sui diritti civili, né che le posizioni del partito sull’identità di genere siano la causa della sconfitta, con il pericolo che le persone trans diventino la vittima sacrificale di questo dibattito. Tutt’altro. Questo si inserisce in una dinamica più ampia per cui il Partito Democratico ha perso la guerra della narrazione. Uno degli spot più popolari e onnipresenti della campagna di Trump, «Harris is for they/them, Trump is for you», era efficace non perché affrontava un tema che interessi agli elettori (le questioni di genere sono sempre state in fondo alla lista), ma perché ha rinforzato l’idea vincente che quello Democratico sia un partito di élite culturali più interessate a normare linguaggio e sport femminili che non a occuparsi dell’economia e dell’immigrazione, quando nei fatti così non è. 

Non rispondere alle domande sull’economia, non avere un risposta ai legittimi dubbi sulle passate posizioni radicali espresse nel 2019, non riuscire a trovare un modo per slegarsi da una presidenza molto impopolare, non connettere con le tematiche che erano più in alto nelle priorità degli elettori: tutto ciò ha fatto sì che si dipingesse facilmente l’immagine di Kamala Harris come poco autentica, studiata, uscita dalla macchina degli studi di consulenza, candidata di un partito radicale, distaccato, impegnato a discutere di critical theories e oppressioni sistemiche in una torre d’avorio. Con il senno di poi, forse la mancata risposta alla prima domanda del dibattito presidenziale («Gli americani stanno meglio o peggio di quattro anni fa?») è rimasta in mente agli elettori più della buffonata sui cani e gatti a Springfield.

(* dottore di ricerca in storia contemporanea)

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