di DANIELE LAZZARIN *
Dopo il Leone d’oro per il miglior film conquistato a Venezia (ne abbiamo già parlato nel reportage dal festival su ‘Piazza Levante’ del 14 settembre 2023) Povere creature! – Poor Things di Yorgos Lanthimos continua a collezionare riconoscimenti, fra cui undici nomination ai Premi Oscar 2024.
Assistere a questo film significa entrare in un mondo ‘altro’, che pur ci appartiene o al quale inconsapevolmente apparteniamo; il racconto è, fin dal primo impatto, visivo: gli effetti grandangolari, l’uso del fish-eye e il bianco e nero ci introducono in una dimensione geometricamente ossessiva alla Escher, allegorica rappresentazione delle angustie del razionalismo positivistico di fine Ottocento, riferimento cronologico indicato anche nel romanzo gotico e “magnificamente vivace” di Alasdair Gray, da cui è tratto il soggetto e in parte è adattata la sceneggiatura di Tony McNamara. Tuttavia, come si è potuto già osservare, l’ambientazione storica del film non è perfettamente definita: l’immaginario potrebbe essere quello della letteratura fantascientifica ottocentesca, cioè quel mondo potrebbe rappresentare il nostro presente o il nostro futuro come veniva allora prospettato, e anche per questo lo humour nero di Lanthimos ci diverte, con trovate che rimandano alla fiducia nel galvanismo, cioè all’idea ottocentesca che l’energia elettrica potesse riportare alla vita. Nella casa-laboratorio del dottor Godwin Baxter (God, Dio, come inconsapevolmente lo chiama Bella nella sua fase infantile) si aggirano animali fantastici, frutto non di manipolazioni genetiche, ma delle abilità chirurgiche dello scienziato, interpretato da Willem Dafoe, un po’ pazzo, ma non del tutto, e seguace del credo scientifico a cui è stato educato dal padre, grazie ai cui esperimenti ovunque nel corpo è segnato da cicatrici, che lo rendono simile al “mostro”, cioè alla creatura portata in vita dal dottor Frankenstein nel film espressionista del 1931, a cui iconicamente dà il volto Boris Karloff.
Adattare il romanzo di Alasdair Gray, scrittore e artista, considerato il padre di un “rinascimento” scozzese, non significava solamente riprenderne le parole, ma anche l’arte visuale e l’estro grafico, che fanno di ogni sua pagina un capolavoro. I tecnici ingaggiati dal regista greco con l’intento di effettuare qualcosa di analogo, ma in modo del tutto originale, hanno dovuto escogitare effetti speciali simili a quelli degli studi cinematografici degli anni Trenta o addirittura di Meliès, arricchendoli poi con la CGI; hanno creato modellini per gli esterni e gli interni di Lisbona, Alessandria, Parigi e Londra, città allegoriche che richiamano Le città invisibili, che Bella visita o a cui ritorna nel Grand Tour da lei stessa voluto, e hanno ricreato il blu inchiostro del cielo e del mare durante la navigazione a cui suo malgrado lei è costretta, così che molte immagini del film sembrano quadri o tarsìe, di gusto esotico e favoloso o di carattere nuovamente geometrico. Si colgono, fra gli altri, riferimenti alle opere visionarie di Hieronymus Bosch, Egon Schiele, Francis Bacon, e ai modelli dell’Espressionismo e del Surrealismo, in un insieme che costituisce lo sfondo su cui agiscono i personaggi, in una sorta di black comedy o di favola postmoderna, dominata da un diffuso intento satirico e umoristico. È importante ricordare che fra gli autori preferiti da Gray vi era Italo Calvino; siamo infatti di fronte a una low fantasy, cioè a una fantasia che non pervade tutta l’opera, letteraria o cinematografica, ma lascia spazio alla favola filosofica. E viene in mente anche la satira di Lewis Carroll alla società vittoriana nelle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Fra tavoli anatomici e inquietanti e dissezioni, nella vita di Godwin occupa un posto speciale Bella, interpretata da Emma Stone, attrice con cui Lanthimos collabora fin dai tempi de La favorita (2018), qui straordinaria nella mimesi e nella recitazione; corpo di donna pietosamente (nel racconto e nelle dichiarate intenzioni di Godwin) restituita alla vita con il trapianto del cervello del feto da lei stessa concepito, Bella cresce vertiginosamente nell’intelligenza e nell’esperienza, guidata dal principio di piacere e dall’educazione sensistica impartita da quello che ha finito per diventare suo protettore e padre putativo. È una donna, ma si muove a scatti come una bambina o come una marionetta, ha un linguaggio non ancora del tutto strutturato e ignora il senso di parole semplici, ma al tempo stesso usa progressivamente un linguaggio aulico e conosce il termine “empiricamente”. I suoi capricci e i suoi comportamenti, soprattutto quando inizia a scoprire il piacere sessuale, oltre a mettere in difficoltà la sua grottesca governante, danno inizio a una serie di scene divertenti e paradossali; Godwin, comprendendo che la sua innocenza la rende vulnerabile, cerca di porle un freno e le prospetta il fidanzamento con un suo allievo opportunamente istruito (Ramy Youssef), ma Bella decide di partire alla scoperta del mondo con l’avvocato (Mark Ruffalo) incaricato di redigere – secondo le convenzioni borghesi e per il desiderio di Baxter di avere sempre accanto a sé la sua protetta – il contratto prematrimoniale: e God, che crede nel libero arbitrio, la lascia andare. Così Bella conosce il mondo, ora a colori, conosce anche le crudeltà della vita e della società, impara a usare meglio la testa grazie a nuovi incontri, fra cui quello con Martha (Hanna Schygulla), che la introduce alla filosofia, e impara a distinguere i sentimenti e ad amare la libertà, restando immune da ogni senso di colpa e prendendosi gioco, senza sforzo e intenzione, di ogni uomo che cerca di dominarla, fino all’umoristica vendetta finale. Il femminismo del film, quindi, si evidenzia nel prevalere del punto di vista di Bella, nei suoi imbarazzanti “perché?”, e si traduce in sberleffo nei confronti del maschilismo tossico e delle convenzioni.
I potenziali riferimenti alla creatrice del mito di Frankenstein, Mary Shelley, non sono pochi: la scrittrice era figlia di un’antesignana settecentesca del femminismo, Mary Wollstonecraft, morta pochi giorni dopo averla data alla luce; il padre, guarda caso, era il filosofo William Godwin, che la mandò, quindicenne, a soggiornare per diversi mesi nella casa del pensatore radicale William Baxter. Vi è probabilmente una protesta e un risentimento femminile alle radici del romanzo, che, come fra l’altro narrato nel film Mary Shelley – Un amore immortale della regista saudita Haifaa al-Mansour, vuole esprimere nella solitudine del mostro creato dal dottor Frankenstein la tristezza dell’autrice per la morte della sua bambina. Questi sentimenti non trovano spazio nel film di Lanthimos, dove nulla e nessuno, donna, uomo, animale o luogo, ha un’identità precisa, anzi ognuno può essere sempre qualcun altro o qualcos’altro (forse per questo “povere creature”?), ma nonostante ciò Bella non rinuncia a dichiarare il suo apprezzamento per il fatto di essere viva.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)