di NICOLA PEIRANO *
Il 1° gennaio 2016 due uomini bussano alla porta di Alex Schwazer, marciatore altoatesino e medaglia d’oro alle Olimpiadi nella 50 km. Sono lì per effettuare un test antidoping. Alex è preso alla sprovvista e non può non notare quanto sia insolita quella visita, perché il primo giorno dell’anno nessun atleta viene sottoposto a un test del genere. Tuttavia Alex è sereno, si sente in “buona fede” e, mentre osserva i due uomini che se ne vanno con un campione delle sue urine, è già col pensiero ai prossimi allenamenti. Da diversi mesi si sta preparando per tornare a gareggiare in una competizione ufficiale perché alla fine di aprile terminerà il suo periodo di squalifica. Alex infatti è stato trovato positivo all’antidoping già nel 2012, una leggerezza che gli è costata tanto non solo in termini di carriera ma anche di immagine.
Tutti ricordano il suo pianto disperato di fronte alle telecamere quando confessava di aver assunto l’eritropoietina, l’ormone glicoproteico più noto con l’acronimo ‘Epo’ che viene assunto illegalmente da alcuni atleti per migliorare le proprie prestazioni. Dopo aver affrontato un percorso pieno di sacrifici per riabilitare la sua immagine agli occhi dell’opinione pubblica, Alex sa che se dovesse ricadere nello stesso errore, questa volta l’epilogo sarebbe completamente diverso. Niente più scuse, niente più possibilità di essere perdonato. Sarebbe la fine della sua vita agonistica.
È per questo che in quegli anni di purgatorio ha chiesto aiuto ad Alessandro Donati, allenatore simbolo nella lotta al doping. ‘Sandro’, che ha alle spalle una lunga carriera nell’atletica leggera, è un personaggio sui generis. Romano verace e senza peli sulla lingua, è stato uno dei primi a sospettare di Schwazer negli anni in cui il campione di Vipiteno era all’apice della sua carriera. Insomma, è uno che ci vede lungo.
Sandro ha fatto della guerra al doping una ragione di vita, una missione che ha quasi finito per rovinarlo. Ha affrontato dure battaglie in seno al Coni e ad altre istituzioni per la difesa della trasparenza e della legalità nel mondo dello sport, e per queste sue posizioni e per il rifiuto di scendere a compromessi è ormai un emarginato.
In seguito alla condanna per doping, Alex è andato a cercare proprio lui, uno dei suoi primi ‘accusatori’, proprio perché ha riconosciuto in Sandro non solo un eccellente allenatore ma anche la persona giusta che lo avrebbe aiutato a rimettersi in carreggiata. Dopo averlo convinto ad affiancarlo nei suoi allenamenti e a sostenerlo psicologicamente in quel percorso di redenzione, il suo vecchio nemico è diventato così il suo più grande alleato. Entrambi si sono dati lo stesso obiettivo: dimostrare al mondo che si può rimediare ai propri errori e che si può vincere in maniera pulita, perché Alex Schwazer è davvero un campione.
Alex e Sandro hanno così stretto un patto di sangue: niente più scorciatoie, niente aiutini, soltanto fatica e sudore. In poche parole, la più totale e reciproca fiducia.
È per questo che Alex si sente tranquillo quando il 1° gennaio viene sottoposto a quel test. Forse è un po’ inquieto date le circostanze, ma in cuor suo è sicuro di essere dalla parte giusta, di non essere più nel torto. Ma non sa ancora quello che lo aspetta.
‘Il caso Alex Schwazer’ è una docu-serie targata Netflix in quattro puntate che racconta uno degli episodi di cronaca sportiva più eclatanti degli ultimi anni. A partire dalle Olimpiadi di Pechino del 2008, la serie traccia un profilo del campione raccontando gli snodi principali della sua carriera ma soffermandosi anche sulle sue vicende private: la relazione con la pattinatrice Carolina Kostner, la sua lotta con la depressione, l’incontro quasi ‘salvifico’ con l’attuale moglie.
È un racconto dettagliato che sostiene con decisione una tesi di cui si fanno portavoce non solo Schwazer e Alessandro Donati, ma anche l’avvocato di Alex e alcune figure di spicco del giornalismo d’inchiesta che hanno seguito il suo caso. La tesi è molto semplice e disarmante: Alex Schwazer sarebbe vittima di un complotto ordito ai suoi danni dalla Wada, l’agenzia mondiale antidoping, e dalla Iaaf, la federazione internazionale di atletica leggera. La sua colpa sarebbe quella di aver contribuito a portare a galla tutto il marcio che si annidava nelle più importanti istituzioni sportive italiane e del mondo. In particolare, dopo la prima condanna per doping, Schwazer avrebbe denunciato la complicità tra i vertici di queste istituzioni e la federazione di atletica russa, una vicenda ormai nota al grande pubblico che – per chi ha visto la serie – è strettamente collegata alla carriera di Alex.
Tutto ruoterebbe attorno alla famosa provetta di urina, che sarebbe stata ‘inquinata’ apposta per far risultare il test positivo. Nel 2021 il tribunale di Bolzano darà ragione a Schwazer e ai suoi legali, una sentenza che però verrà contestata dalla Wada, impedendo all’atleta di partecipare alle Olimpiadi di Tokyo.
A prescindere dai numerosi interrogativi ancora in sospeso e dall’opinione che lo spettatore può avere riguardo a questa intricata vicenda, la serie è senza dubbio un ottimo prodotto in grado di coniugare la fiction con la documentazione dei fatti. Numerosi materiali di repertorio sono affiancati da alcune scene girate ad hoc per raccontare l’intimità dei personaggi, e anche quando suonano un po’ artefatte contribuiscono ad alimentare il senso di empatia nei confronti dell’atleta, vittima insieme al suo allenatore di una storia che assomiglia più a un film di spie e intrighi politici. Quasi impossibile, in effetti, non prendere le parti del campione, anche se non tutti i dubbi vengono dissipati.
Alla fine ci resta sicuramente un forte senso di inquietudine: non solo per le ombre che alleggiano in alcuni ambiti dello sport professionistico, ma soprattutto per la forza persuasiva e coercitiva che i cosiddetti poteri forti possono esercitare sul singolo.
(* Insegnante e sceneggiatore per il cinema e la televisione)