di ALBERTO BRUZZONE
Ma ha un senso l’educazione affettiva nelle scuole? È un percorso utile per ragazze e ragazzi? È una proposta valida per frenare certi tipi di comportamenti e per impedire certi tipi di azioni? E come può essere insegnata?
Il dibattito, in queste settimane, è molto intenso, specie dopo il femminicidio più mediatico e che più ha fatto scalpore: quello patito da Giulia Cecchettin per mano del suo ex fidanzato, Filippo Turetta. È da questo momento in poi che il tema dell’educazione affettiva all’interno degli istituti scolastici è tornato a essere più presente. Ma si tratta di un’opzione per la quale occorre personale qualificato e competente.
La pensa così anche Erika Panchieri, psicologa e psicoterapeuta molto conosciuta e apprezzata nel Tigullio, già titolare, per molti anni, del progetto ‘ScuolAscolta’ del quale hanno beneficiato numerosi istituti scolastici del territorio. Lo psicologo a scuola è sempre stato – e continua a essere – un enorme e validissimo supoorto sia per studentesse e studenti che per il corpo docenti e le famiglie: momenti collettivi e momenti individuali indubbiamente importanti per tutti.

Erika Panchieri è tra quelle professionalità che sono state e continuano a essere preziose: “Io penso – afferma – che l’educazione affettiva nelle scuole sia necessaria, anche se non sufficiente. La scuola, in quanto agenzia educativa, ha il compito di intervenire, ma deve farlo con una risposta di livello. Non si può demandare anche questo gravoso compito alle insegnanti, che già sono oberate su moltissimi altri fronti. Servono persone preparate e competenti e noi psicologi possiamo fare la nostra parte”.
Il nodo, secondo Erika Panchieri, “è tutto un lavoro sulle emozioni. Mi si chiede spesso come si sia arrivati a queste derive comportamentali sempre più frequenti e a queste manifestazioni sempre più violente degli uomini verso le donne: il cortocircuito, a mio avviso, si è creato quando si è disallineata la parte prestazionale con quella emotiva. Mi spiego meglio: abbiamo puntato, come società e come esseri umani, tutto sulla performance, siamo andati a cercare la perfezione, e così facendo abbiamo ignorato i livelli di stress e di carico emotivo. Le famiglie si sono concentrate ad avere dei figli bravi piuttosto che dei figli che stanno bene. Qui nascono i problemi”.
La psicologa prosegue: “Nel momento in cui non si conoscono le proprie emozioni e non si è capaci di controllarle, poi si rischiano strategie non convenzionali per provare a gestirle. La violenza e gli scatti di rabbia sono tra queste strategie. L’incapacità di convivere con le proprie emozioni è fonte di tantissime fragilità. Nelle scuole ricevo moltissimi insegnanti: c’è tantissima fatica nel governare le relazioni emotive dei ragazzi e delle ragazze. Io penso che una delle parti più ampie del problema sia esattamente lì. Poi, non può e non dev’essere solamente la scuola a prendersi delle responsabilità rispetto ai giovani. La famiglia non può restare indietro, non può mai dire ‘intanto se ne occupa la scuola’. Il lavoro di partenza, quello che sta alla base di tutto, è principalmente di mamme e papà e deve partire sin dall’infanzia e poi andare avanti sulla stessa strada. Penso alla scuola ma, ad esempio, anche all’allenatore di calcio, di nuoto, dello sport che viene prescelto. Ognuno può fare la propria parte, può mettere il proprio tassello. Ogni fronte può essere un presidio educativo”.
Per quanto riguarda la scuola, “l’educazione affettiva, come dicevo, è necessaria, ma oltre a dover essere fatta da parte di chi ha le giuste competenze, deve anche essere per tutti, non può essere impartita in alcune scuole sì e in altre no, a macchia di leopardo. Tutti devono avere le medesime condizioni e le medesime possibilità”.