di DANILO SANGUINETI
Diciamo la verità. La voglia di prendere chi è odioso o malvagio a pesci in faccia prima o poi c’è passata per la mente. Nella realtà l’operazione appare rischiosa e foriera di incomprensioni a meno che non si sappia come sublimare l’istinto e usare il pesce per creare una meta-realtà, magari sbattendo sulla carta la vita in carne e lische.
In un’epoca nella quale il rendering e le stampanti 3d possono creare qualsiasi cosa a due, tre e, tra poco, quattro dimensioni – usando modelli che varieranno nel tempo e dando un significato concreto al concetto di time lapse – lo stesso concetto di riproduzione va ripensato.
Sfondata la barriera della crono-limitazione avremo oggetti ‘d’arte’ più veri del vero. Cosa resterà a chi vuole imboccare strade diverse, non rassegnato a un meccanico iperrealismo? O il sentiero dell’astratto che sconfina nel concettuale oppure non descrivere la vita ma usare la vita stessa per descrivere. Per esempio dipingere nature morte che sono vive, ‘still life’ come dicono gli inglesi.
Si chiude il cerchio: Elena Di Capita, ricercatrice e artista lavagnese, è andata avanti tornando indietro, ossia scoprendo e reinterpretando la tecnica particolare del Gyotaku (per i pignoli si pronuncia con la ‘g’ dura e con l’accento sull’ultima sillaba), nata e codificata nel Giappone del tardo periodo Edo, prima metà del diciannovesimo secolo.
Meglio lasciar spiegare ad Elena, che è anche archeologa e che ha fatto ricerche approfondite sull’argomento. “In giapponese la parola gyotaku significa pesce strofinato (gyo = pesce, taku = strofinato) e fu introdotta in Giappone dai pescatori per avere una ‘foto’ dei pesci più grandi che pescavano. Infatti la tecnica presuppone l’apporto di inchiostro – originariamente usavano sumi, un inchiostro a base di carbone – sul pesce che diventa così un timbro che lascerà l’impronta sulla carta giapponese (washi, fabbricata con fibre di gelso o di canapa o di paglia). Gli studi più seri ritengono che le più antiche stampe gyotaku risalgano al 1839. Una raccolta di queste stampe è attualmente conservata presso la biblioteca della città di Tsutuoka. Altre realizzate negli anni 1850-60 sono conservate al Museo Chiedo di Tsurouka e al Museo d’Arte Homma Sakata nella Prefettura di Yamagata”.
In pratica una specie di sindone che certifica la freschezza e la bellezza delle prede pescate. Originale sicuramente, particolare ma anche logico. E molto più esteticamente piacevole di quanto si possa immaginare. La prof. Di Capita ci regala la lezione numero due. “Ci sono due principali tecniche di gyotaku. La Diretta, simile alla tecnica originaria: si inchiostra sul pesce, e si appone la carta sopra il pesce. Indiretta: si pone la carta sul pesce pulito, successivamente si tampona la carta con dell’inchiostro poco alla volta per dosare l’intensità goccia su goccia”.
Siamo anni luce lontano dalla concezione di dipinto o stampa veicolata per secoli dall’estetica occidentale. Ma non siamo lontanissimi dalla sensibilità naive di un Ligabue (che si sforzava di immedesimarsi negli animali che creava imitandone posture e suoni) e dalla irruenza provocatoria di un Duchamp, in fin dei conti il Gyotaku estremizza il ragionamento che sta alla base del ‘Ready Made’, portando l’oggetto della vita quotidiana a ‘fare’ invece che a ‘essere’ il quadro.
Ed in ogni caso meglio adoperare i prodotti del mare che quelli di manzoniana (Piero) invenzione… La domanda che sorge spontanea è come sia incappata una giovane ligure nella scia di uno stile così lontano dai gusti e dalle conoscenze occidentali. La risposta è per forza di cose articolata: “La spiegazione sta forse nella domanda che penso tutti ci siamo fatti da piccoli. Cosa vuoi fare nella vita? L’artista ma non nel senso tradizionale, o meglio ambivo a qualcosa che fosse fuori dai soliti schemi”.
Classe 1985, residente a Lavagna (“quartiere Cavi, per la precisione”) mette in pratica sin dall’adolescenza il suo approccio non lineare. “Il percorso che mi ha portato a sperimentare la tecnica dei Gyotaku è fatto di svolte e ripensamenti abbinando le aspirazioni alle necessità. Di base certo c’è la propensione per l’arte, più in generale la passione per il disegno. Ho avuto la grande fortuna di vivere sempre a due passi dal mare: la sua presenza visiva e uditiva è una costante della mia esistenza, me lo ha reso quasi un compagno di famiglia”.
E questo è un primo indizio che l’approdo a questo particolare stile fosse scritto negli astri. “Mi diplomo a pieni voti all’Istituto d’arte di Chiavari ma il sogno di diventare un’artista viene accantonato, il bisogno di guadagnarsi la pagnotta era più pressante”.
Rara dichiarazione di onestà in un ambiente dove fa curriculum vantarsi di essere senza parte (e spesso pure senza arte). “Studio restauro a Botticino (Brescia) e mi laureo in Archeologia a Genova. Dopo un lungo periodo di trasferte in cantieri di scavo sparsi per il mondo ho dovuto frenare per una ragione meravigliosa, l’arrivo di Damiano, mio figlio. È durante questo momento di stop che scopro l’incredibile tecnica dei Gyotaku, e mi si apre un mondo. Un po’ come trovare una via impressionante – nel senso traslato di sensazionale e pure diretto di impressioni – della raffigurazione. Ed io scelgo di accogliere questa via”.
Questo accadeva quattro anni fa. Un quadriennio che ha permesso a Elena Di Capita di tornare a camminare e poi a correre verso la meta agognata. “Nei primi tempi avevo qualche perplessità, mi chiedevo se poteva esserci un mercato. Oggi i gyotaku sono diventati un filone artistico che ha seguito soprattutto in Giappone e negli Stati Uniti, in cui la versione colorata ha avuto campo, ma in Europa e segnatamente in Italia scoprii che era sconosciuta ai più e ignorata anche da molti esperti di arte orientale. Sebbene cercassi colleghi italiani non ne trovai. Mi ero avventurata in territorio inesplorato. Mi chiedevo se potesse esserci un mercato. Non c’è voluto molto per avere la risposta. Nel 2019, confortata da riscontri e dalle vendite delle mie prime opere, ho aperto il mio studio e ho potuto seguire con la dovuta calma idee e realizzare alcune opere più ambiziose”.
Il metodo di lavoro scelto è il più vicino alla tradizione. “Perché ha catturato la tecnica originaria con metodo diretto. E il Gyotaku ‘grezzo’, quasi tribale che non stona in un contesto contemporaneo. Le imperfezioni, gli spazi vuoti che non lasciano l’impronta, sono pura anima! È l’aspetto affascinante che ritengo sia il più importante dei gyotaku. Tenete presente che ancora oggi in Giappone si scrivono le informazioni sul pesce e sulla cattura”.
Un’installazione tra il packaging artistico e la normativa commerciale. I pescatori del Sol Levante di due secoli fa così avanti da anticipare Derrida e Barthes? Elena Di Capita non perde tempo dietro questi futili interrogativi, marcia a ritmo sostenuto verso nuovi traguardi. E riesce sempre a sorprendere chi tenta di incasellarla dentro uno schema.
Per esempio in questo febbraio 2022 si trova molto lontano dal suo Tigullio. Da un paio di settimane ha raggiunto la Tanzania. E stoppa con solo il suo coinvolgente sorriso chi pensa alla vacanza da ricco di un’artista affermata. È non in un resort per turisti abbienti in cerca di emozioni di plastica e safari preconfezionati. “Sono su una delle isole più piccole e meno frequentate dell’arcipelago di Zanzibar. Sto insegnando alla moglie e alle figlie dei poverissimi pescatori locali come si realizza un Gyotaku. Ho aderito al progetto di una onlus europea che vuole dare a queste popolazioni la possibilità di sostentarsi con il turismo consapevole e l’artigianato locale. È un’esperienza fantastica, le donne di qui si sono mostrate non solo accoglienti, ma anche estremamente ricettive. Stanno realizzando opere di buona fattura”.
Tornerà in Italia a fine mese. “Lo faccio a malincuore ma devo allestire una mostra dei miei lavori a Siena. Nell’ultimo periodo le richieste si sono moltiplicate, sono spuntati altri artisti italiani che intendono dedicarsi a questa tecnica, mi sento fiera di essere vista come una specie di caposcuola”.
Ed anche una sperimentatrice perché se prima il ‘materiale’ adottato era per la stragrande maggioranza l’acciuga, oggi sta sperimentando nuove materie prime: razze, polpi, lampughe, pesce sciabola, pesce di san Pietro, pescespada. “Al 90% le mie composizioni coinvolgono le acciughe, singole, replicate, in banchi. Questi ultimi sono di gran lunga i gyotaku più richiesti, ma anche i più impegnativi. Spesso li realizzo su commissione. La forma del banco di acciughe si può riprodurre e adattare a seconde delle esigenze personali. Essendo ogni pezzo un prodotto unico e fatto a mano, nessun gyotaku sarà mai uguale all’altro”.
Notevoli quelle che riproducono il famoso ‘pallone’. “Quando le acciughe si sentono minacciate si raggruppano vorticosamente per formare una sfera o un corpo roteante con lo scopo di disorientare i predatori. Lo spettacolo del pallone di acciughe è uno dei più affascinanti che il mare possa offrire. Questi banchi possono raggiungere dimensioni veramente impressionanti (fino a 10 metri di larghezza). Essendo il pesce cui mi sento più legata, ed essendo il mio cavallo di battaglia, non potevo non creare un pallone di acciughe gyotaku. E poi l’acciuga è il nostro pesce, il pesce del Mar Ligure, doveva essere il mio cavallo di battaglia”.
Gli spiriti più materialisti hanno una sola domanda. Elena evidentemente l’ha sentita diverse volte. E ghigna: “Sì, dopo l’uso le ‘matrici’ possono essere riciclate. Non si butta via niente…”. Dal mangiare con gli occhi ai soggetti che poi verranno mangiati. Siamo in un’epoca nella quale ci gabellano la gastronomia come la undicesima arte, ci può stare anche il contrario. Il cibo dello spirito che si tramuta in quello per il più plebeo stomaco. Un’unica controindicazione. Meglio non assistere alla creazione delle opere della geniale Elena perché scatta la voglia di interrompere il processo creativo e farsi una frittura di paranza come Dio comanda. Chissà se Cezanne con le mele e Caravaggio con l’uva dovettero combattere la stessa tentazione.