di DANIELE LAZZARIN *
In un momento storico in cui sempre più urgente diviene la protesta delle donne iraniane, vera avanguardia della società civile, al grido di “donna, vita, libertà”, manifesto programmatico più che slogan dopo la morte di Mahsa Amini, acquista valore particolare il film Leggere Lolita a Teheran del regista israeliano Eran Riklis, che ha ottenuto il Premio speciale della Giuria al cast femminile e il Premio del pubblico FS alla Festa del Cinema di Roma 2024. L’autore, già in passato attento a creare ponti e a cercare di ricucire i rapporti fra comunità ostili e diverse in film come La sposa siriana e Il giardino di limoni, affronta il non facile compito di adattare per il cinema il best seller mondiale della scrittrice iraniana Azar Nafisi, protagonista autobiografica del suo romanzo, animato non solo da ricchezza di sfumature emotive e da arte del raccontare (non a caso una delle sue eroine modello è Shahrazād, la mitica narratrice delle Mille e una notte), ma anche da autentico amore per la letteratura, ripercorsa in alcuni suoi capolavori con originalità critica e considerata come “epifania della verità”, più che come ritratto della realtà. Riklis, forse per un atto di umiltà, cerca linearmente di riprodurre la geometria dell’intreccio, senza coglierne le più complesse angolature, e rischierebbe di cadere in una certa rigidità didascalica se non si affidasse al potere delle immagini di ritrarre e narrare, sostenuto in questo dalla forza espressiva dei volti delle interpreti, mai banali nella bellezza dei loro sguardi; quasi a sottolineare una comunanza di intenti, notiamo nel ruolo di Sanaz la presenza di Zar Amir Ebrahimi, che ha diretto con Guy Nattiv, altro regista israeliano, Tatami – Una donna in lotta per la libertà.
Centro motore della vicenda narrata nell’adattamento di Riklis è con la sua intensa interpretazione, nella parte della scrittrice protagonista, Golshifteh Farahani, che qualcuno ricorderà come l’affascinante ed estrosa Laura accanto ad Adam Driver in Paterson di Jim Jarmusch; l’attrice iraniana mantiene sempre uno stile recitativo classico e contenuto, e sembra tenere a freno un ardore interiore che neppure a una donna appartenente all’élite intellettuale è consentito esprimere in pubblico dalla “polizia morale” iraniana, ma sa ben rappresentare ciò che rimane nel film del libro e dell’autrice: uno stato d’animo, una tensione profonda e non spenta, ancorché delusa. Adattare un romanzo significa necessariamente tradirlo, sostiene in un’intervista Golshifteh Farahani (certo, però i risultati possono essere molto diversi), e manca nel film il punto di vista nostalgico di chi rievoca luoghi e momenti, persone e aspirazioni di una generazione a cui è stata usata violenza, in un tempo che inesorabilmente trascorre; infatti la caratterizzazione dei personaggi e dei loro comportamenti non è del tutto riconoscibile rispetto a ciò che Azar Nafisi, ribelle e spiritosa, talora ingenua, ricorda e racconta, ma un sentimento non è andato perduto, ed è il desiderio di libertà sempre più consapevole e forte che si radica profondamente nelle ragazze protagoniste e consente loro di vivere.
Nella prima parte del film è descritta proprio la progressiva perdita della libertà personale, con l’avanzare a livello istituzionale del fondamentalismo della Repubblica islamica: Azar, divenuta un’affermata anglista dopo gli studi compiuti in Occidente, ottiene una docenza universitaria mentre sono ancora vive le speranze suscitate dalla fine del regime dello Scià, ma deve presto scontrarsi con un’ideologia che vuole imporre anche alla letteratura, come a ogni altra manifestazione culturale e umana, la propria gabbia interpretativa: così, mentre discute in aula del significato simbolico della “luce verde” da cui Gatsby è attratto nel romanzo di Fitzgerald, Azar si sente obiettare imperiosamente da uno studente che quella luce rappresenta solo il colore del dollaro, in un’opera incentrata su un desiderio adultero. Verrà poi espulsa dall’università quando rifiuta l’imposizione di indossare lo hijab, venendo richiamata anni dopo quando ormai, se vuole uscire in pubblico, deve subire la costrizione del velo; ma in seguito sarà proprio lei a rifiutare le censure e, con un atto di libero arbitrio, a scegliere di rassegnare le dimissioni.
Il “disvelamento” diviene a questo punto il cuore della narrazione: la scrittrice propone ad alcune studentesse, che più le sono sembrate coinvolte, di partecipare settimanalmente a un seminario letterario nel soggiorno della sua casa, che si trasforma in un mondo alternativo, con le cime innevate dei monti Elburz (in realtà il film, frutto di una coproduzione italo-israeliana, è stato girato in Italia) incorniciati da una finestra sullo sfondo dello studio: le ragazze giungono da strade che recano ancora i segni della guerra fra Iran e Iraq e dove incombono i manifesti della propaganda di regime, spesso sgattaiolando agli angoli delle vie con il capo chino, per non incorrere nello sguardo indagatore di guardiane e guardiani della rivoluzione, attenti a scoprire se sotto il chador ci sono colori, ciocche di capelli o sorrisi che possano turbare gli uomini. Nello spazio di libertà e autocoscienza creato da Azar gli uomini sono esclusi, nonostante non manchino nel racconto figure maschili positive come quelle del marito e di un collega che ormai vive isolato, “mago” e mentore per la scrittrice; le ragazze possono quindi volontariamente togliersi il velo e mostrarsi, valorizzando la propria unicità e comunicando attraverso i loro abiti preferiti e il linguaggio del corpo la loro soggettività; anche discutere di opere letterarie è uno strumento per svelare messaggi nascosti e per smascherare le ideologie. Gli incontri possono aprirsi a una sorta di educazione sentimentale: così le scene di ballo in Orgoglio e Pregiudizio, con il loro rituale di avvicinamento/allontanamento, raffigurano emblematicamente come vengano veicolate le emozioni in una società retta da codici di comportamento estremamente formali. Ma è proprio Lolita di Vladimir Nabokov a offrire una fondamentale chiave di interpretazione; leggere Lolita a Teheran sembra già di per sé un azzardo se, grazie anche all’immagine iconica di Sue Lyon nel film di Kubrick, il personaggio ha finito per corrispondere all’archetipo della “ninfetta” dotata di un ingenuo potere seduttivo, mascherando l’abuso di cui è vittima una preadolescente. Non diversamente accadeva però in Iran da quando il regime degli ayatollah aveva nuovamente legalizzato il matrimonio con spose bambine; a un livello più ampio di interpretazione, come a Lolita nei fatti viene sottratta la sua stessa vita, poiché diviene oggetto di un sogno – quello di Humbert – che non le appartiene, così le donne iraniane erano divenute vittima del sogno di un uomo, la “guida suprema” religiosa.
Un’opera di smascheramento, questa volta con lo sguardo rivolto a Occidente e ai sogni fasulli propagandati per nascondere il degrado della realtà, è svolta anche da Sean Baker in una commedia con qualche sfumatura di rosa che tende a trasformarsi in dramma: Anora, film vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2024. Ani, interpretata da Mikey Madison, si esibisce senza veli e senza inibizioni al servizio delle fantasie dei clienti in uno strip club e, se ben remunerata, si prostituisce, convinta di avere il controllo della propria vita; senza censure la macchina da presa dinamicamente la segue fino a quando Vanja, figlio giovane e svitato di un ricchissimo oligarca russo, non la induce a sposarlo a Las Vegas. Tutto è finto, ma Anora, peraltro ragazza sveglia e intelligente, incomincia a cedere all’illusione di essere come Cenerentola e arriva a progettare un viaggio di nozze a Disney World per soggiornare nel palazzo del principe; improvvisamente però irrompono sulla scena gli scagnozzi dell’oligarca e infine gli stessi genitori di Vanja, che ristabiliscono l’ordine dettato dalla logica estrema del denaro, che ha contagiato perfino l’immaginazione; Anora, che ha lottato senza mai arrendersi, deve prendere atto che il suo sogno si è infranto, ma il suo pianto liberatorio indica che è iniziato per lei un cammino di autocoscienza. Così il regista indipendente Sean Baker, in un film divertente, commovente e paradossale, ma fondato su anni di documentazione e di lavoro, riesce ancora una volta con originalità creativa a dar voce agli ultimi della società americana e a trasformare una commedia in un film di denuncia.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)