di DANIELE LAZZARIN *
Intitolare un film con il nome del protagonista è di per sé già un modo di introdurlo allo spettatore, esaltando l’importanza della sua presenza nella fiction o addirittura nella storia umana. Così, ad esempio, Ken Loach vuole ridare dignità agli ultimi della scala sociale, in percorsi di autoconsapevolezza e di riconquista della loro identità di cittadini, come si coglie nel commovente finale di I, Daniel Blake, ma anche in My Name is Joe; in Jimmy’s Hall, come nel recente The Old Oak, si indica un luogo, una sala o un pub, che però è simbolo di “persone”, di una comunità solidale che comunque resiste: la “vecchia quercia” che non si arrende mai è proprio lui, Ken Loach.
Anche Giorgio Diritti con il suo Lubo, in concorso quest’anno a Venezia, vuole dare nome e cognome (Moser) a un personaggio immaginario, ma rappresentante del popolo Jenisch, “zingari bianchi” come venivano definiti con disprezzo nella Svizzera tedesca e in Germania, per distinguerli dalle altre comunità nomadi, di cui nei lager comunque condivisero la sorte, nonostante etnicamente diversi e con una propria lingua, in gran parte di origine germanica.
Nella democratica Svizzera, in nome dell’ordine e di un programma di “normalizzazione”, di eugenetica e addirittura di sterilizzazione durato fino agli anni ’70, rischiarono di essere cancellati dalla storia. Diritti, apprendendo queste vicende attraverso il romanzo “Il seminatore”, di Mario Cavatore, a cui si è ispirato, non ha potuto far mancare la sua testimonianza civile, come in altre sue opere, ma lo fa principalmente creando il personaggio di Lubo.
Come osservava Pirandello, una volta usciti dalla mano dell’autore i personaggi godono di vita propria, ed è con una certa emozione che assistiamo alla loro nascita, come nel folgorante inizio del film, dove Lubo con la famiglia si esibisce in qualità di artista di strada in vari travestimenti, in una scena ricca di vitalità; fanno da contorno, un po’ cupe, le montagne svizzere dei Grigioni (in realtà il film è stato perlopiù girato nelle nostre Alpi), che rievocano i ricordi di Ligabue in Volevo nascondermi, film che presenta con questo diverse analogie.
A differenza di Ligabue, Lubo impara ad esprimersi anche con il linguaggio degli strati sociali più elevati, sebbene il suo modo di parlare mantenga un che di lento e particolare, grazie all’interpretazione caratteristica di Franz Rogowsky, attore tedesco di successo già operato a un labbro.
È notevole la ricerca linguistica attuata in ogni film di Diritti: Il vento fa il suo giro è ambientato nelle valli occitaniche del Piemonte (lo stesso titolo traduce un proverbio occitanico), L’uomo che verrà ci presenta una bimba, Martina, chiusa nel suo mutismo che ritorna a parlare per cantare una ninna nanna al fratellino sopravvissuto come lei alla strage di Marzabotto, nell’Appennino emiliano dove ci si esprimeva comunemente in dialetto, e in Lubo si parlano il dialetto svizzero tedesco, l’idioma jenisch e l’italiano: lingue in cui si esprime il protagonista assumendo diverse identità, in una sorta di giallo che inizia con un omicidio e con la scoperta che i suoi figli gli sono stati sottratti, e che sua moglie è morta nel tentativo di impedirlo.
Si tratta dell’attuazione del programma della fondazione Pro Juventute, resasi storicamente colpevole non solo della sottrazione dei bambini jenisch per darli in adozione, ma anche della drammatica sorte che toccò a molti di loro, come testimoniato nelle sue opere da una delle vittime, la scrittrice Mariella Mehr. Si svolge così, dal punto di vista di un padre, l’odissea di Lubo, che nel suo desiderio di ritrovare i figli, e di vendetta, riesce ad apparire paradossalmente un normale, distinto borghese e a ingravidare diverse donne; ma è nel suo sentirsi straniero nel mondo, nella sua solitudine e nel suo finale desiderio d’amore e di rinascita che riesce a catturare l’empatia dello spettatore.
Una simile emozione di attesa, ma con prospettive molto diverse, si può provare alla nascita del personaggio di Napoleon di Ridley Scott, in un esordio in cui il futuro imperatore viene immaginato presente, tra gli schiamazzi della folla, alla decapitazione della regina Maria Antonietta; mentre di Lubo non sapevamo nulla, di Napoleone tutti credono di sapere qualcosa, e molto si esige dall’ottantacinquenne autore britannico, riconosciuto e amato fin dai tempi di Alien (1979) e di Blade Runner (1982); già questo suo ultimo film è in testa alle classifiche di botteghino. Ugualmente però, e senza troppi schemi razionali, lo spettatore si aspetta che il film sveli il suo “segreto” e che il personaggio sviluppi la sua storia, ma il Napoleone di Scott rischia di deludere parecchio; ai critici, soprattutto francesi, che gli hanno imputato numerose inesattezze storiche, il regista ha replicato sottolineando il carattere mitico, epico e melodrammatico del suo progetto, ma dopo il primo successo del giovane condottiero nell’assedio di Tolone, non riusciamo proprio a cogliere come l’“eroe” insegua il suo sogno di gloria e ottenga la dedizione dei suoi soldati; a parte lo sporadico insulto di “delinquente corso”, non vi è nessuna allusione alla sua infanzia e non si spiega, se c’è, il suo desiderio di rivincita.
La campagna d’Italia, in cui l’astro di Napoleone iniziò la sua fulminea ascesa e nacque il suo mito – Stendhal ne è testimone – è liquidata con un’ellissi quasi sbalorditiva (“L’Italia si arrese senza combattere”); di punto in bianco ce lo ritroviamo come imperatore, con la celebre scena dell’autoincoronazione. Viene il sospetto che il regista guardi al suo personaggio con poco amore e con ironia britannica, ma il suo Napoleone non riesce neppure ad essere caricaturale, anche se sonnolento e quasi in trance alla battaglia di Waterloo, e non riesce neppure ad essere un odioso tiranno, come era Commodo ne Il gladiatore, sempre interpretato da un attore di grande professionalità, ma lì più efficace, come Joaquin Phoenix.
Certo, le scene delle più importanti battaglie rivelano la grandezza dello stile modernista, che già conosciamo, e dell’impianto razionalistico dell’autore, ma per il resto si rischia di affondare nella noia, la più grande nemica del cinema, come sosteneva Calvino. Sorte non molto migliore tocca al personaggio di Joséphine (Vanessa Kirby) al centro del filone melodrammatico, più giustapposto che coniugato con quello epico. Alla sua prima apparizione ricorda Pris, la replicante simile a un Pierrot di Blade Runner, interpretata da Daryl Hannah, portatrice però di una grande energia vitale; invece nello svolgersi della storia i due amanti, poi coniugi, sembrano spenti e si muovono meccanicamente, quasi come automi, su uno sfondo sempre accurato e artificiale, caratterizzato da una linearità orizzontale.
Forse Ridley Scott ripropone con qualche aggiustamento l’estetica neo-noir che lo ha reso famoso negli anni ’80, ma lì ha creato androidi che esigevano di essere più umani ed eroici degli essere umani – basti pensare a Roy, interpretato dall’indimenticabile Rutger Hauer – mentre qui gli esseri umani diventano automi. Nell’impero multietnico di Napoleon, poi, domina l’inglese, cioè la lingua del “nemico”, perfino nelle lettere che egli invia e riceve. Unica eccezione i canti rivoluzionari, come Ça ira e La Carmagnole. Possiamo forse pensare che l’unico vero personaggio epico sia il popolo rivoluzionario che travolge i governanti corrotti? Ma fin dall’inizio una didascalia ci avverte che la rivoluzione nasce da guasti e finisce per provocare guasti.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)