Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.
di MATTEO MUZIO *
Donald Trump fino a qualche anno fa aveva un tocco che gli riconoscevano anche agli avversari: un candidato da lui sostenuto era ragionevolmente certo della vittoria. Questo “superpotere” però vale solo all’interno dei confini americani (e non sempre funziona nemmeno lì). Appena si va verso Nord, si disattiva.
È quando è accaduto proprio in Canada, dove fino al 20 gennaio scorso i conservatori guidati dal giovane e brillante leader populista Pierre Poilievre si preparavano a conquistare oltre 200 seggi su 343 al Parlamento di Ottawa. Poi il presidente americano è entrato in carica e ha cominciato ad attaccare i vicini con minacce di annessione e sfottò all’impopolare premier uscente, il liberale Justin Trudeau, ormai a fine corsa dopo nove anni di governo complicati. Ecco che quindi arriva l’annuncio delle sue dimissioni. E la curva dei sondaggi politici cambia.
I liberali scelgono a larga maggioranza il neofita della politica Mark Carney, già governatore della Bank of Canada tra il 2008 e il 2013 e poi della Bank of England dal 2013 al 2020, visto come l’uomo migliore per affrontare la pressione economica proveniente dal potente vicino. Poilievre, invece, che aveva un programma “trumpiano” fatto di tagli radicali alla spesa pubblica abbinati a una drastica riduzione degli aiuti alla cooperazione internazionale e la chiusura della tv pubblica.
Dal canto suo Trump, spiazzato dalla scomparsa politica di Trudeau, simbolo di una sinistra globalista da lui odiata profondamente, è diventato una sorta di sacco da boxe di tutti i leader politici canadesi. Se il Canada non è integralmente bipartitico e alla sua Camera dei Comuni, oltre Liberali e Conservatori, siedono anche gli autonomisti francofoni del Bloc Quebecois, la sinistra del Nuovo Partito Democratico e persino dei rappresentanti dei Verdi, stavolta l’opinione pubblica si è polarizzata. Da un lato chi voleva comunque un approccio di shock economico proposto da Poilievre e chi invece ha preferito affidarsi a un tecnocrate attento al sociale come Carney.
Il voto ha restituito un Paese diviso: i Liberali hanno conquistato 169 seggi, poco meno di quelli necessari per governare con maggioranza assoluta, i Conservatori hanno conquistato ben 144 scranni, anche se il loro stesso leader ha perso nel suo distretto di Carleton, nei sobborghi della capitale Ottawa. Solo le briciole agli altri: 22 seggi ai francofoni, 7 alla sinistra, uno ai Verdi. Carney però, data la situazione, non avrà particolari difficoltà a cercare alleanze strutturali o di convenienza con i partiti minori. Salta agli occhi infine la somiglianza politica del premier con Mario Draghi. In entrambi i casi abbiamo due persone cresciute nelle istituzioni bancarie dotate di grande competenza economica. Draghi però, a differenza di Carney, ha sempre rifiutato il confronto diretto con gli elettori. Timoroso forse del vento populista bipartisan che da anni soffia tra l’opinione pubblica italiana.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)