di DANILO SANGUINETI
Non chiedere chi era Bruno Baveni. Se eravate tifosi negli anni Sessanta, Settanta ed Ottanta o se siete appassionati di quell’epoca che, alla luce di cosa è diventato il football, appare eroica e ruspante allo stesso tempo, è inutile spiegare. Per tutti gli altri stiamo parlando di un calciatore prima e allenatore poi scomparso sabato nella sua Sestri Levante ad ottantasei anni quasi compiuti.
Un personaggio di prima grandezza che ha fatto la storia del calcio qui, nel Levante, che ha lasciato un segno in Liguria e non solo. I funerali sono stati celebrati lunedì 15 dicembre proprio nel giorno in cui avrebbe festeggiato il genetliaco. Lo hanno salutato in tantissimi nel Santuario di Nostra Signora del Soccorso nella frazione di San Bartolomeo della Ginestra, il suo quartiere. Perché Baveni prima che campione e allenatore di alto livello era un sestrino doc. La Bimare, dove era nato e dove aveva sempre mantenuto la residenza pur se la sua professione lo portava in giro per il mondo, è sempre stata il porto sicuro, il posto dove tutto era iniziato e dove tutto ha voluto che finisse. Negli ultimi tempi lo potevi discorrere di calcio con gli amici di una vita e tanti altri più giovani che lo ascoltavano a bocca aperta, alla Spiaggia dei Balin, il posto dove gli autoctoni si ritrovano quando il rumore del mondo, foresti et similia, si allontana.
Bruno Baveni può essere raccontato ripercorrendo le tre fasi della sua carriera sportiva. Chi lo aveva conosciuto nelle prime due, sotto i riflettori come giocatore e mister, non poteva perdersi neppure la terza, quella di insegnante. Un maestro le cui lezioni andavano ascoltate, perché impreziosite da venature di saggezza. Poi c’è sempre stato un “quarto Baveni: se ti dimenticavi del professionista duro ma corretto, scoprivi un caustico e disincantato osservatore delle vicende del grande calcio, un guru che non si prendeva sul serio e per questo le sue perle di saggezza erano ancora più apprezzate.
Il suo percorso come giocatore lo portò in squadre che conseguirono vittorie mitiche. Cresciuto nelle giovanili del Sestri Levante, centrocampista di corsa e battaglia, un tuttocampista ante litteram, venne ingaggiato dal Genoa, dove giocò per sette campionati, dal 1959 al 1966, per un totale di 168 presenze e di 13 gol realizzati. Con i rossoblù vince la Coppa delle Alpi 1962, risultando tra i migliori giocatori impegnati nella finale contro il Grenoble.
Verrà poi ingaggiato nel Milan nella stagione 1966-67 vincendo subito la Coppa Italia e, nelle due stagioni successive, con Nereo Rocco, lo scudetto, la Coppa delle Coppe e la Coppa dei Campioni, senza tuttavia prendere parte a nessuna delle due vittoriose finali europee contro Amburgo ed Ajax. Un grave infortunio lo riporta a soli 30 anni nel semiprofessionismo, prima a Savona e poi a Trento. Chiude in Serie D nel 1973-74 con la squadra della sua città. Andava molto orgoglioso anche di una convocazione nell’Italia Under 19 nel 1958.
Il suo itinerario come allenatore parte, manco a dirlo, dal Sestri Levante, sempre in D. È subito quarto posto. Nel 1976 il presidente Chiesa lo vuole all’Entella (6º in D). Da lì è un crescendo: Imperia (1º in D e 5º in C2), Trento (per due volte 2º in Serie C2 nel 1980 e 1985 con altrettante promozioni nella categoria superiore e 10º in C1 nel 1981 e 1986), Sanremese (11º in C1), Pavia (6º in C2), Casale (1º in C2, 10º, 11º e 16º in C1), Pro Vercelli (11º in C2).
Le tappe che restano scolpite nella memoria sono le altre tre avventure con l’Entella. Torna a Chiavari nel 1986, chiamato da Gianni Comini e Sergio Barbieri. Una stagione che entra nella leggenda: bissa il 5º posto record in Serie C2 ottenuto l’anno prima da Gian Piero Ventura. Allenò poi nuovamente i biancocelesti nel 1993-1994 ottenendo un 6º posto in Eccellenza (di nuovo scelto dal presidente Chiesa), e infine nel 1998-1999 rispondendo all’appello di Bonino, Bovone e il fraterno amico Comini. Sta vincendo il torneo di Eccellenza ma se ne va per incompatibilità con il subentrante Ricardo Ciancilla. E non si può negare che avesse in questo caso visto molto lungo…
Chiusa la carriera come tecnico in varie leve nel settore giovanile della Virtus Entella. Ciò che stupisce è il fatto di come fosse rispettato, da molti anzi venerato, nonostante il suo peccato originale, il suo essere sestrino. Il segreto stava nel fatto che “Brunin”, come lo chiamavano amici e compagni, era sempre schietto: “Io ero, resto e me ne andrò da “corsaro”, ma ho sempre dato il massimo della mia professionalità per le società che mi hanno ingaggiato. L’Entella mi ha regalato occasioni straordinarie e indossando la casacca biancoceleste ho vissute avventure indimenticabili. Sarò sempre grato a questo club”.
Ecco perché non ha mai ricevuto un solo fischio al Sivori e al Comunale: che fosse avversario o idolo di casa poco importava, comunque veniva applaudito.
Da applausi erano anche le sue esternazioni che rilasciava sempre e solo “off the record”, magari al termine di qualche riunione conviviale. Perché Bruno Baveni era uno che dietro alla maschera da disincantato navigatore di acque non sempre tranquille nascondeva un profondo amore per il calcio venato dalla paura che il giocattolo si stesse rompendo, che la ragione di tutta una vita potesse perdere di significato strangolata da mille affanni che poco o niente hanno a che fare con lo sport.
Un giorno di diversi anni fa seduto ad un rustico tavolo in una tensostruttura mentre si consumava quello che oggi verrebbe definito brunch sociale con mister, dirigenti e qualche scribacchino, ad uno di questi ultimi confidò: “Non ne posso più di trovarmi di fronte ragazzi che hanno perso l’entusiasmo di correre dietro al pallone. Più passano gli anni e più mi viene voglia di lavorare con i puri, quelli non corrotti da dirigenti, procuratori, agenti, famiglie, compagnie sbagliate, tutto il carrozzone che ora va di moda. Peccato che ogni stagione che passa vedo che il limite di età in cui è ancora possibile “redimere” si abbassa. Mi sa che di questo passo dovrà dedicarmi esclusivamente ai primi calci”. Aggiungendo subito dopo con il solito mezzo accenno di sorriso – che però era rafforzato dallo sguardo dove brillava l’ironia – “Sempre che non li abbiano già rovinati quando stavano nel girello!”.
Ciao Mister, uomo di calcio, come amavi definirti.