di DANIELE LAZZARIN *
Presentato in anteprima al Torino Film Festival 2022 e distribuito nelle sale cinematografiche dalla fine di maggio 2023, ‘Dalíland’ della regista Mary Harron, autrice di altri biopic ma soprattutto conosciuta per ‘American Psycho’, mette in scena gli anni del tramonto del grande artista di Figueres attraverso lo sguardo di James Linton, giovane stagista di una galleria di New York, interpretato da uno statico Cristopher Briney, soprannominato San Sebastiano da Dalì, che forse comprendendo la sincerità della sua ammirazione lo prende a ben volere. L’espediente del protagonista-testimone, probabilmente derivante da ‘Il grande Gatsby’e dai suoi adattamenti cinematografici, rende centrale anche nel film, come nell’arte di Dalí, l’esperienza visiva, anzi voyeuristica.
Dalí occupa un posto importante nella storia del Cinema, a cominciare da ‘Un chien andalou’ (1929), diretto da Luis Buñuel, ma ideato e interpretato anche dall’artista catalano. Il film è manifesto fondamentale del Surrealismo e già dal titolo, piuttosto criptico, sembra ironicamente alludere al poeta Federico Garcia Lorca, che all’amico Dalì aveva dedicato un’Ode. L’iconica sequenza della luna tagliata da una nuvola, a cui analogicamente è associata l’immagine dell’occhio di una donna (in realtà di un vitello) tagliato con un rasoio, fa per riflesso chiudere gli occhi allo spettatore, invitando a un modo diverso di vedere le cose, quello del sogno e dell’inconscio: siamo alle origini del metodo paranoico-critico daliniano, che introduce alle forme e al mistero delle visioni e del delirio, senza mai rinunciare alle ascendenze della grande arte rinascimentale e barocca.
Nel successivo ‘L’âge d’or’ del 1930, sempre diretto da Luis Buñuel, Dalí offre l’esempio di effetti visuali in movimento, precorrendo la videoarte; collaborerà anni dopo con Hitchcock per ‘Io ti salverò’ (1945), dando vita con le sue immagini al sogno raccontato dal protagonista. Dalí, pur dichiarando provocatoriamente “il surrealismo sono io”, era stato nel contempo allontanato dal movimento per la mancata adesione all’impegno politico, che insieme alla psicoanalisi ne costituiva la base ideologica; anagrammando il suo nome André Bréton lo chiamò ‘Avida Dollars’, sottolineando le presunte vere motivazioni della sua arte. In seguito addirittura si parlò di una sua connivenza con il franchismo.
Di tutto questo in ‘Dalíland’ vi è poca traccia, mentre lo sguardo di James Linton si apre sul mondo che circonda l’artista e sulla sua ansia per il trascorrere del tempo, visibile anche negli orologi molli della sua più celebre opera, ‘La persistenza della memoria’; si colgono la sua ipocondria e il suo timore della morte, che si materializza negli incontrollabili tremori, si insiste sulla ‘dolce vita’ newyorkese in stile anni Settanta, sui travestimenti eccentrici e sulle feste orgiastiche in realtà poco erotiche, perché Dalí esprimeva le sue pulsioni quasi esclusivamente nelle sue opere. Tuttavia, nonostante l’ottima interpretazione di Ben Kingsley nei panni e nei baffi del personaggio, l’introspezione psicologica è poco approfondita e Dalì appare come un genio lamentoso più che nella sua complessità di uomo e di artista. Si indugia molto sulla sua dipendenza da Gala, terrorizzata dal timore della povertà, sui falsi delle sue incisioni e sui problemi di commercializzazione delle sue opere, ma pochissimo sulle fasi della sua ispirazione, ad esempio sul suo ‘misticismo atomico’ e sul ritorno alla religione che contraddiceva l’anticlericalismo degli esordi. Vengono ricordati con flashback, belli visivamente, ma inseriti in modo meccanico, momenti della giovinezza e luoghi della memoria e del sogno, come la casa originariamente di pescatori di Port Lligat, presso Cadaqués, oggi parte del triangolo museale daliniano. E poi vi sono i personaggi che popolano questa Dalíland: modelle, galleristi, artisti e cantanti, tra cui Jeff Fenholt, protagonista a Broadway dell’adattamento americano di ‘Jesus Christ Superstar’ e amante e protetto di Gala. Vi è Amanda Lear, una delle poche persone capaci di rasserenare l’animo di Dalì; e poi naturalmente vi è Gala, la moglie onnipresente nella sua vita e nella sua opera, la musa-mostro della sua ispirazione, l’unica donna con cui l’artista aveva raggiunto una completa intimità. Interpretata da Barbara Sukowa, attrice già amata da Fassbinder e da Margarethe Von Trotta, qui appare in una versione quasi caricaturale, con labbra strette e sguardo duro, preferibilmente chiusa con l’amante nel castello di Púbol, donatole dal marito. È difficile cogliere nel film ciò che veramente era stata Gala, misteriosa donna russa di nome Elena, che aveva ricevuto il suo soprannome dalla poetessa Marina Cvetaeva, che aveva conosciuto a Davos in sanatorio Paul Éluard, divenendone musa ispiratrice e sposandolo, che era stata poi amante di Max Ernst in un triangolo con il marito e che infine, conosciuto Dalì, ne era divenuta compagna di vita, moglie, musa e amministratrice.
Domina nel film, grazie anche all’ottima fotografia, la dimensione teatrale, spesso grottesca e spettacolare, della vita e dell’arte di Salvador Dalì; ma questo probabilmente è ciò che l’artista stesso voleva comunicare creando nella sua città natale, Figueres, il suo mausoleo e il tempio della sua arte, il Teatro-Museo Dalì, oggi uno dei musei più visitati della Spagna.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)