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Giovedì 6 novembre 2025 - Numero 399

New York, la vittoria del sindaco Zohran Mamdani: il Messia della nuova sinistra americana, una ricetta forse anche per la sinistra di casa nostra

Questi risultati, dalla Grande Mela in giù, hanno un minimo comune denominatore: l’impopolarità estrema dell’amministrazione Trump e delle sue misure autoritarie
Il neo eletto sindaco di New York, Zohran Mamdani
Il neo eletto sindaco di New York, Zohran Mamdani
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Ormai è diventata quasi una frase ad effetto per sentirsi intelligenti: “New York è molto diversa dall’America profonda”. Che poi quanto sia profonda questa nazione, non è dato sapere. Il West Virginia sarebbe più profondo dell’Alabama? E perché un grande centro economico-finanziario come Omaha in Nebraska sarebbe più profondo di un villaggio rurale nel costiero Vermont? Non è dato sapere. 

Certo che però il primo test elettorale della seconda presidenza di Donald Trump ci dice la stessa cosa. Perché, se tutti i giornali parlano del giovanissimo sindaco musulmano e socialista Zohran Mamdani, su cui tutti i commentatori si rispecchiano. La giovane speranza, il Messia della nuova sinistra americana, una ricetta forse anche per la sinistra di casa nostra. A caldo si può dire intanto che la maggioranza assoluta degli elettori newyorchesi ha votato la sua proposta politica, spesso composta da ricette da libro dei sogni come i trasporti pubblici gratuiti e un calmiere per gli affitti che appaiono fuori controllo, con le singole stanze che da tempo oltrepassano il costo mensile “monstre” di 1500 dollari. Per usare due figure politiche di casa nostra, ancora non possiamo sapere se sarà un Giuliano Pisapia o un Luigi De Magistris, anche se le prime ipotesi lasciano propendere per questa possibilità. 

Detto questo, al di là di New York, comunque, la presidenza di Trump, che da dieci mesi tiene i cittadini e gli investitori con il fiato sospeso in attesa di decisioni repentine su dazi e altre misure economiche nei confronti di chissà quale paese. Inoltre, ben poco apprezzate sono state decisioni come la costruzione di una gigantesca sala da ballo di gusto pacchiano-zarista al posto della storica East Wing della Casa Bianca, abbattuta senza le necessarie autorizzazioni, ma anche i negoziati con i dem per risolvere l’impasse sul budget, sostituiti da insulti e sfottò adolescenziali anche sulle pagine istituzionali. 

I vincitori nella cosiddetta “Altra America” hanno un profilo ben diverso. L’ex deputata e agente della Cia Abigail Spanberger, di posizioni di sinistra moderata, ha trionfato come nuova governatrice della Virginia, stato adiacente alla Capitale dove vivono decine di dipendenti federali coinvolti nei licenziamenti indiscriminati di questi mesi, spesso decisi in modo totalmente arbitrario.  La sua posizione di ex fedelissima di Biden si abbina a un’ostilità dichiarata alle parole d’ordine di una sinistra radicale dal sapore troppo elitario. 

Stesso destino per l’ex soldatessa Mikie Sherrill in New Jersey alle prese con l’arrembante sfida del trumpiano italo-americano Jack Ciattarelli. Anche in questo caso il distacco nella sua elezione a governatrice ha superato i dieci punti. Sempre rimanendo sul punto: il caos economico causato da Donald Trump nei confronti dei ceti più deboli, senza apparire eccessivamente radicale, ma soltanto di buon senso. 

Sorprendenti anche i risultati in stati più conservatori come la Georgia, dove i democratici vincono in due cariche minori a livello statale, o la Pennsylvania, dove la maggioranza della Corte Suprema è rimasta progressista. Riesce anche l’azzardo del governatore californiano Gavin Newsom, che ha modificato la mappa dei collegi del Congresso per far fronte alle modifiche fatte dal Texas per avvantaggiare i repubblicani: il 63% dei votanti ha approvato la nuova mappa. Questi risultati però, dalla Grande Mela in giù, hanno un minimo comune denominatore: l’impopolarità estrema dell’amministrazione Trump e delle sue misure autoritarie. Del resto, i dem fino a non troppi anni fa, non avevano una linea nazionale ben definita: negli stati costieri e “accademici” si presentavano candidati più di sinistra, mentre nei territori più rurali si spendevano di più figure di centristi noti per la loro religiosità personale. Per battere Trump nel 2026 alle elezioni di metà mandato basterà quindi questo mix, non dovendo scegliere un programma nazionale coerente. Nel 2028 le condizioni saranno diverse. E le due Americhe si dovranno unire per sconfiggere colui che da oltre dieci anni sta mettendo sotto stress l’impianto istituzionale costruito dai Padri Fondatori.

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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