di DANIELE LAZZARIN *
Unico film italiano selezionato e presentato in concorso all’edizione del 2025 del Festival di Cannes, nella crisi generale che la nostra industria cinematografica sta attraversando, Fuori di Mario Martone rivela quel je ne sais pas quoi di autoriale che rimanda alla Nouvelle Vague nella priorità affidata allo sguardo e al valore semantico delle inquadrature nel processo di creazione dei personaggi; in questo ha un ruolo fondamentale, nella parte della protagonista, Valeria Golino, nota per il suo sguardo magnetico, ma qui capace di esprimere più delicate tonalità emozionali anche attraverso il segreto linguaggio dell’interiorità, appreso quando, recitando come non vedente ne Il colore nascosto delle cose di Silvio Soldini, ha dovuto “provare a non vedere pur vedendo”. Analogamente nella costruzione spazio-temporale della vicenda, apparentemente disorganica, il regista napoletano ha privilegiato l’osservazione del rincorrersi di associazioni e mutamenti interiori nella mente della protagonista e nel suo mondo affettivo e relazionale, qui declinato al femminile.
Forse per questo giudicato scialbo e scarsamente coerente dalla critica internazionale, il film ha invece ricevuto plausi dai nostri commentatori, che in alcuni casi hanno accusato i denigratori di incomprensione della realtà culturale italiana qui rappresentata e non hanno mancato di sottolineare come il festival si associ al Marché du film, che rende Cannes una passerella in cui si celebrano glamour e affari; non si possono comunque negare la professionalità e l’impegno civile che caratterizzano questa rassegna, che quest’anno ha premiato con la Palma d’oro il film iraniano A simple Accident del regista Jafar Panahi, vero simbolo del dissenso al regime degli ayatollah.
Fuori ha degli elementi che, quand’anche solo intuitivamente, vengono subito percepiti dallo spettatore italiano, a iniziare dalla notevole ricostruzione storico-architettonica e atmosferica di una Roma degli anni ’70 e ’80, capace ora di evocare il senso di nostalgia della protagonista, ora di suggerire come motivo fondante, dichiarato fin dal titolo del film, la contrapposizione e l’interscambiabilità del dentro/fuori: a ciò concorrono spazi chiusi e nascosti, talora intimi, e spazi esterni razionalmente strutturati, labirintici e oppressivi come ne Il conformista di Bernardo Bertolucci. La vicenda si fonda su un soggetto elaborato da Ippolita Di Majo, autrice insieme al regista della sceneggiatura, ispirato a due romanzi autobiografici di Goliarda Sapienza, L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio; non si tratta però di un biopic, perché il film abbraccia solo un’estate, da lei peraltro rivissuta letterariamente, della ricca e complessa esistenza della scrittrice, che racconta come il breve periodo trascorso in carcere sia stato fonte di rinnovamento creativo e interiore. Alla scena iniziale in cui Goliarda è costretta a spogliarsi prima di entrare nel “ventre” di Rebibbia, che lei rivivrà come luogo di rinascita, si contrappone la clip che chiude i titoli di coda, in cui Enzo Biagi in un’aula universitaria intervista la Goliarda reale sulla sua esperienza, da lei positivamente giudicata, con aria di sufficienza e incredulità, con un atteggiamento che sfiora il derisorio condiviso anche dagli altri astanti – tutti uomini – incapaci di accettare la sfida antropologica insita nella testimonianza della scrittrice.
Goliarda era entrata in carcere nel 1980, tre anni prima dell’intervista, per aver sottratto dei gioielli a un’amica intima, ricca e in altre circostanze generosa, ma restia a concederle anche un minimo sostegno economico per la promozione dell’opera della sua vita, L’arte della gioia, a cui aveva dedicato anni di lavoro, trascurando ogni altra attività che avesse potuto fornirle sostegno economico, essendo stata attrice, sceneggiatrice e collaboratrice di Citto Maselli, prima suo compagno e poi amico: fu proprio il regista a presentarle nel 1986, sul set di Storia d’amore, Valeria Golino (vincitrice per quel film della Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile), oggi sua ammiratrice e regista della serie L’arte della gioia. Ma, appunto, Goliarda non era una persona comune; erede di una straordinaria storia familiare di militanza politica, si era ritrovata a frequentare in quegli anni i salotti romani, si era “imborghesita”, sebbene, per le sue condizioni economiche e per il mancato riconoscimento del suo romanzo, fosse poco più che tollerata. Il gesto del furto, pirandellianamente, si carica per la scrittrice di significati anche simbolici per ridefinire la propria identità; vuole mettere alla prova quell’ambiente e la sua amica, ma più sottilmente ristabilire un contatto con la figura materna, per la cui perdita aveva attraversato un lungo periodo di lutto e disagio psichico, risolto in parte con la psicoanalisi. Femminista, socialista, sindacalista e giornalista, Maria Giudice era fra l’altro divenuta responsabile nel 1916 della Camera del Lavoro di Torino e aveva diretto il “Grido del Popolo”, avendo Antonio Gramsci come redattore; madre di sette figli, negli anni ’20 si era trasferita per sostenere le lotte contadine in Sicilia, dove si era legata all’avvocato catanese Giuseppe Sapienza, da cui ebbe Goliarda, che ricorda nel nome il figlio maggiore di Giuseppe, presumibilmente ucciso dalla mafia. Vissuta in una simile famiglia e comunità, dove la cultura era più importante del pane, a Goliarda era stato insegnato che la prigione, l’ospedale e il manicomio erano strutture chiuse attraverso cui si doveva passare per conoscere il proprio Paese. Fuori è quindi trasposizione di una pluralità di rimandi ed esperienze, che attraversano diversi livelli sociologici e psicologici per giungere, attraverso il filtro letterario, al cinema.
Martone ripercorre dal vero i luoghi dell’anima della scrittrice, iniziando dalle scene del carcere girate direttamente a Rebibbia: qui, dopo un iniziale spaesamento, perché lei appare alle altre e forse ancora si sente una signora della buona società romana, Goliarda entra a far parte di una comunità popolata di figure vivissime e al tempo stesso archetipiche: c’è la ragazza che si atteggia a dura, come “James Dean” (Daphne Scoccia); c’è Suzie Wong, interpretata dalla vera ristoratrice Sonia Zhou, che improvvisa un grande piatto con il cibo povero del carcere e crea la magia del pranzo della festa e della cerimonia del the; c’è Barbara, la giovane innamorata di un sogno che tenta il suicidio, interpretata da Elodie, alla cui voce nella colonna sonora è affidata la canzone Sinnò me moro, resa celebre da Gabriella Ferri. Soprattutto c’è la “disperata vitalità” di Roberta (la talentuosa Matilda De Angelis), attivista politica, delinquente abituale e tossicodipendente, che usa la droga per “stronarsi” come, secondo lei, fa anche Goliarda con la scrittura. A Roberta, una volta uscita dal carcere, la protagonista sembra cedere la scena: vagando senza meta nella luce abbagliante dell’estate romana, si lascia guidare dall’esuberanza della nuova amica in una sorta di odissea cittadina, che culmina con la corsa notturna in un’auto rubata; come Modesta, la creatura letteraria protagonista del romanzo che nessuno in Italia voleva pubblicare, Roberta non pone freni alla sua femminilità e intelligenza, ma è un personaggio più elementare e drammaticamente attuale, che di sé fa solo sapere che non vede sua madre da quando aveva sedici anni e che periodicamente estorce soldi alle zie. Le zone d’ombra della sua personalità e le sue ferite nascoste offrono però a Goliarda la possibilità di ripercorrere visceralmente e quasi eroticamente il rapporto figlia/madre e di riscoprire le origini di ogni attaccamento affettivo.
Roberta realmente e simbolicamente si colloca sulla soglia del dentro/fuori non solo perché entra ed esce di prigione, ma anche perché si fa portatrice all’esterno dei messaggi di chi è recluso; emblematica in questo senso è la scena in cui detenute ed ex detenute comunicano cantando tra di loro, superando ogni recinto. Ma a questo punto può nascere un dubbio: dove poter riconoscere la libertà, a cui Goliarda e ciascuno nel film sembra aspirare? Ogni luogo sembra svelare il suo contrario, come l’inatteso rifugio senza finestre che Barbara, uscita di carcere, si è creata dietro l’elegante profumeria che ha aperto in una via periferica. Forse per Goliarda l’unica via di scampo era la tranquillità dell’attico, affacciato su Villa Glori, in una geometrica palazzina dei Parioli, in cui inesauribilmente scriveva. A complicare però le cose, nel film l’inquadratura su una data, il 2 agosto, ci ricorda che quella è l’estate della strage di Bologna e che non esistono storie solo personali; restano unicamente le certezze del titolo del secondo romanzo su Rebibbia: le certezze del dubbio.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)