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L’architettura come emblema del “secolo breve”: il film ‘The Brutalist’ - Piazza Levante

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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

L’architettura come emblema del “secolo breve”: il film ‘The Brutalist’

La pellicola, sceneggiata dal regista Brady Corbet con la compagna Mona Fastvold anche in base a ricordi familiari, narra il percorso biografico di un ebreo ungherese, László Tóth, in fuga dall’Europa nel 1947
The Brutalist con Adrien Brody è un film attualmente al cinema che sta facendo parecchio discutere
The Brutalist con Adrien Brody è un film attualmente al cinema che sta facendo parecchio discutere
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di DANIELE LAZZARIN *

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2024, The Brutalist di Brady Corbet (che alla resa dei conti ha ottenuto la standing ovation del pubblico e il Leone d’argento per la miglior regia) era inizialmente atteso come un “film mostro” per la sua durata di oltre tre ore e mezza, incluso un intervallo di 15’ come parte integrante e necessaria, per il suo formato in VistaVision 35mm, raddoppiato nella stampa in 70mm, già in uso in capolavori degli anni ’50, per il lungo tempo in cui, fra le varie interruzioni, è stato concepito, e per la sproporzione fra il limitato  budget disponibile e le pretese di un colossal: un misto, insomma, di massimalismo e minimalismo che è poi caratteristica fondamentale del  movimento architettonico, il Brutalismo, che ispira il titolo del film. Il soggetto intorno a cui ruota l’intreccio, però, non riguarda tanto la storia dell’architettura, quanto la vita di un uomo, un architetto brutalista, appunto; e ben presto ci accorgiamo che il titolo rimanda anche ad altre implicazioni e che vi sono molte connessioni e sottotesti suggeriti dalla vicenda narrata; per alcuni personaggi si possono intuire storie inespresse e, al di là della dimensione individuale, incombe in gran parte delle riprese un’atmosfera cupa, che allude quasi allegoricamente, con una sintesi operata attraverso le immagini del Brutalismo, al nucleo storico e all’essenza del Novecento, al dramma del “secolo breve”.

The Brutalist, sceneggiato dallo stesso Brady Corbet con la compagna Mona Fastvold anche in base a ricordi familiari, narra il percorso biografico di un ebreo ungherese, László Tóth, in fuga dall’Europa nel 1947 dopo essere sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, creato a pochi chilometri da Weimar, proprio vicino alla città dove era nata la repubblica a costituzione democratica stroncata dal nazismo e dove nel 1919 era sorta la scuola del Bauhaus, che mirava a fondere arte e tecnologia e di cui László come architetto (si rivelerà in seguito) era stato esponente: siamo indotti a credere di assistere a un biopic che metta in scena la vita di un uomo realmente esistito, ma il nome, forse non casualmente, rimanda solo all’attentatore che nel 1972, con un martello da geologo, aveva colpito la Pietà di Michelangelo. Il film acquista invece subito un respiro epico e la macchina da presa, introducendo la contrapposizione oscurità/luce, ci accompagna attraverso le prime sequenze a conoscere il protagonista, interpretato con intensa espressività da Adrien Brody (vincitore dell’Oscar al miglior attore per Il pianista di Roman Polanski, qui intuitivamente richiamato); dal buio totale, risonante di echi di voci e rumori drammaticamente allusivi come ne La zona d’interesse di Jonathan Glazer, giungiamo a un’inquadratura luminosa e fortemente simbolica, in cui dal basso, come dal fondo di un’imbarcazione, viene ripresa con diverse angolazioni la Statua della Libertà rovesciata. Con un lungo piano sequenza, oltrepassando una folla di profughi, approdiamo quindi alla nuova esistenza di László.

L’architettura non viene introdotta come semplice elemento documentario o decorativo, ma fin dall’inizio entra come idea nella stessa struttura del film, nella sua geometria, nel suo carattere modulare, nel mettere a nudo i materiali, non solo il béton brut (cemento a vista) come nell’allora nascente Brutalismo, ma la stessa “materia umana”. Così la durata del film è scandita da un’ouverture, da due lunghi capitoli e da un epilogo: al centro l’intervallo, con una foto di famiglia che rimanda al passato e un cronometro che inesorabilmente segnala allo spettatore il tempo che resta. Le tappe fondamentali del viaggio esistenziale del protagonista, dal buio alla luce, sono indicate da lunghe carrellate su strade che scorrono in velocità davanti ai nostri occhi; a ritmare il tempo contribuisce la colonna sonora creata da Daniel Blumberg, rimbombante e all’inizio assordante, semplice ma non priva di una cupa grandiosità wagneriana.

László va incontro alla nuova vita dapprima con l’aiuto del cugino Attila (Alessandro Nivola) che, dotatosi di una nuova identità americana e spinto dalla moglie, non manca di farlo sentire un estraneo, ma comunque lo accoglie a lavorare nel suo mobilificio; qui gli si offre la prima opportunità: il rampollo di un ricco magnate vuole rinnovare, come sorpresa per il padre, l’arredamento della sua opprimente biblioteca. Eccellente disegnatore di interni, László crea uno spazio pieno di luce, con scaffali a scomparsa e al centro una chaise longue in metallo tubolare cromato e strisce di cuoio, che richiama i modelli di Marcel Breuer (l’architetto a cui più si ispira la figura del protagonista) e di Mies van der Rohe. L’arrivo improvviso e la collera di Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), padre del committente, dà inizio all’incontro/scontro fra due imponenti personalità, fra due individualismi. Van Buren poi scopre il passato di László e gli commissiona l’opera della sua vita, anzi della vita di ambedue: un corpo di edifici multifunzionale, con al centro una cappella, punto di riferimento per la comunità, che sorgerà su un terreno nei pressi della villa del magnate, che vuole intitolare alla memoria della madre la nuova costruzione. Grazie a Van Buren nella seconda parte del film l’architetto viene finalmente raggiunto dalla moglie Erzsébet (Felicity Jones) con la nipote orfana Zsófia, rappresentanti di una femminilità dolente e segnata dalla guerra, ma in evoluzione, con cui egli dovrà confrontarsi in una relazione tormentata, mettendo a nudo le proprie ferite e quella fragilità che lo induce a una segreta dipendenza dall’oppio.

Il nucleo ideologico del film è tuttavia legato al burrascoso rapporto, segnato da rotture, fra committente e artista: Van Buren, che confida proprio a László un passato difficile e presenta lati psicologici oscuri, rappresenta il sogno e l’incubo americano, l’arroganza del capitale e il fastidio per chi è estraneo a questa logica e per giunta etnicamente diverso (il figlio Harry, che gli è fortemente legato, dopo aver molestato Zsófia, si prende la briga di dire a László che in quella tenuta lui è solo “tollerato”). Van Buren è un personaggio che sembra legato da un filo invisibile a The Childhood of a Leader – L’infanzia di un capo, ambizioso film d’esordio di Corbet (premiato nel 2015 a Venezia con il Leone del futuro) che, ispirandosi a un racconto di Sartre, rappresenta il retroterra psicologico dell’ascesa del nazismo. L’architetto è a sua volta per certi aspetti un personaggio sartriano, che oppone al nulla il suo impegno creativo, che è orgoglioso del fatto che gli edifici che ha costruito sono rimasti in piedi nella devastazione dell’Europa; nel tratteggiarlo il regista sembra aver presente anche La fonte meravigliosa, film del 1949 di King Vidor, che celebra la libertà creativa di un architetto ispirandosi a Frank Lloyd Wright e a un romanzo di Ayn Rand, scrittrice e filosofa che esalta, non senza ambiguità ideologiche, l’individuo che non accetta limiti e che razionalmente ed eroicamente si afferma nella produzione dell’oggetto. László Tóth, in realtà, intende portare a compimento la sua opera senza compromessi utilitaristici, non disdegna il lavoro manuale, all’occorrenza fa lo spalatore di carbone e il manovale stringendo amicizia con Gordon, un emarginato afroamericano che con lui viene inquadrato sopra un altissimo ponteggio mobile d’acciaio sospeso nel vuoto. Egli esprime la sua ebbrezza creativa davanti al candore e ai marmi delle Alpi Apuane, colte nella loro imponenza grazie al VistaVision, in immagini che ricordano Il peccato – Il furore di Michelangelo di Andrej Končalovskij; ed è qui che Van Buren, che lo ha accompagnato alla ricerca dei marmi da destinare all’altare della cappella, attua per rivalità e gelosia quello che si potrebbe definire lo stupro notturno del potere sulla libertà dell’artista. 

Solo nell’epilogo, che si apre con una panoramica nuovamente luminosa di Venezia, dove nel 1980 viene inaugurata la prima Biennale di Architettura, viene svelato il senso dell’opera di Tóth: trascendere nell’arte l’esperienza dei campi di sterminio, guardare a una fonte di luce dove il buio è più profondo, non farsi arrestare dalla fatica e dalla durezza del viaggio pur di raggiungere il risultato a cui si tende. È stata la scenografa Judy Becker a disegnare e a realizzare le opere di un architetto mai veramente esistito, immaginando un Brutalismo che guarda solo al futuro, sebbene il movimento abbia rispecchiato la nudità e l’aspetto massiccio delle costruzioni di guerra e perfino dei lager. Come un’opera di architettura The Brutalist è frutto di un lavoro di squadra, ma l’architetto è Brady Corbet, un regista che ha l’ambizione di partire dal cinema del passato per progettare il cinema futuro, rispecchiando nella tematica affrontata l’inquietudine dei nostri tempi.

(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)

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