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di VITTORIA LOFFI *
Secondo Arthur Schlesinger Jr, uno dei più influenti storici del ventesimo secolo, il presidente avrebbe necessitato di tramutarsi – più prima che poi – in una sorta di imperatore per padroneggiare al meglio tanto la politica estera quanto la politica interna.
Ispirato da figure storiche forti, come il presidente della Ricostruzione Andrew Jackson, Schlesinger faceva derivare una tale autorità onnicomprensiva direttamente dal potere conferito dalla Costituzione all’esecutivo di poter decidere di andare – o meno – in guerra. Da lì, a catena, si sarebbe generato un potere tanto scontato quanto sconfinato, esterno a qualsiasi meccanismo di bilanciamento dei poteri classicamente inteso. Dagli anni Settanta – periodo durante il quale la produzione teorica di Schlesinger fu più fervida – è passato diverso tempo, e si potrebbe dire che l’esecutivo negli Stati Uniti, oggi, è quanto di più imperiale esista.
Un susseguirsi di teorie radicali e di emergenze interne e internazionali (si pensi solo all’11 settembre e al rafforzamento dell’esecutivo guidato dal Presidente Bush) ha aperto la strada a un potere presidenziale più forte di mandato in mandato, sollevando legittimi interrogativi sul futuro della figura del presidente, soprattutto quando in mano a profili come quello del neo ri-eletto Donald Trump che del tradizionale sistema di bilanciamento dei poteri ha fatto, spesso, tema di irrilevanza istituzionale. In che direzione può andare (se non in quella tratteggiata da Schlesinger) la figura del presidente con il ritorno alla Casa Bianca di un ex occupante dello Studio Ovale oggi condannato?
Se si guarda a Trump v. United States, la sentenza dell’estate 2024 della Corte Suprema in materia di immunità presidenziale, la risposta sembra essere chiara: si sta procedendo in direzione della lenta erosione dei check and balances in favore di un esecutivo senza confini. Ad oggi, infatti, il presidente può ritenersi immune da processi penali per le azioni che rientrano nella sua autorità costituzionale conclusiva e preclusiva. Il Commander in Chief – in questo caso Trump – avrebbe, inoltre, diritto a un’immunità parziale da eventuali processi per tutti i suoi atti ufficiali. Continuerebbe a non esistere alcuna forma di immunità solo per quanto concerne gli atti non ufficiali.
La lettura delle opinioni dei giudici – tanto concorrenti quanto dissenzienti – offre uno spaccato dello stato del potere giudiziario oggi: politicizzato, diviso come non mai lungo linee di partito e legato a doppio filo all’esecutivo da cui la nomina a giudice della Corte si è originata. Ciascun giudice associato, infatti, in occasione di una sentenza storica come Trump v. United States ha riecheggiato le posizioni del proprio Presidente (eccezion fatta per l’ultima nomina trumpiana,Amy Coney Barrett, autrice di un’opinione solo parzialmente concorrente in cui ha cercato di limitare lo strapotere esecutivo sentenziato dal giudice presidente della Corte John G. Roberts).
La sentenza Trump v. United States non è che l’apice di un lungo percorso durato anni, durante il quale il supremo organo giudiziario non ha fatto altro che suffragare un esecutivo sempre più forte, di decisione in decisione, finendo poi con il supportare una presidenza ineguagliabile. Il Congresso, dal canto suo, seppur tentando di ricorrere al principale strumento nelle sue mani conferitogli dalla Costituzione (l’impeachment) sembra comunque essere impossibilitato al suo uso concreto: proprio Donald Trump figura come il primo presidente ad aver affrontato due processi per impeachment, venendo ritenuto non perseguibile in entrambe le occasioni. Trump ha, dunque, funzionato come la riprova di un dato incontestabile: qualsiasi sia la motivazione cardine dietro un processo di impeachment presidenziale, il meccanismo risulta fallace quando utilizzato contro l’esecutivo, portando a risultati materiali solo quando attivato contro altri profili. Nessun processo di impeachment presidenziale (Jackson, Nixon, Clinton, Trump) è mai realmente andato a segno, esponendo la procedura costituzionale a dure critiche per la sua inefficienza e supposta partigianeria. Eppure, sembra funzionare quando usato contro altri ruoli federali come giudici o funzionari di governo.
Date le premesse, la presidenza Trump non sembra fornire grandi risposte in merito al destino dell’esecutivo, ma solo un accumularsi di domande: se non si riesce, infatti, nemmeno a mettere in stato d’accusa un presidente né a perseguirlo per aver rinomatamente fomentato una insurrezione come nel caso dell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, come si bilanciano oggi i poteri? Qual è la prospettiva di un esecutivo così liberamente sconfinato?
Secondo la giudice Ketanji Brown Jackson siamo ormai giunto a un punto di non ritorno, in cui forse il panorama politico americano ha dato fin troppa concretezza alle teorie di Schlesinger (pentitosi di aver dato i natali all’idea di una presidenza imperiale nei suoi ultimi anni di vita, dopo aver visto George W. Bush in azione), portando a un re che non potest peccare, intoccabile nelle sue prerogative e che non commette alcun errore liberamente contestabile da altri rami di governo.
(* contributor Jefferson – Lettere sull’America)