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di MATTEO MUZIO *
Si sa, la presidenza degli Stati Uniti è uno dei lavori più stressanti del mondo e per farlo bisogna essere fisicamente e mentalmente molto forti. Lo sa bene Joe Biden, costretto al ritiro dall’emergere sempre più evidente dei suoi acciacchi a luglio. E lo sanno molto bene gli altri inquilini della Casa Bianca: la permanenza al vertice del mondo libero lascia molto provati. Per questo il centesimo compleanno dell’ex presidente Jimmy Carter è un evento raro e da celebrare adeguatamente. Certo, Carter non è più quello di qualche anno fa, iperattivo nel costruire case per le famiglie a basso reddito e nell’agire come diplomatico informale degli Stati Uniti. Aiutando molto, facendo un esempio tra tanti, il riavvicinamento con Cuba.
Nel fare però un bilancio della sua eredità bisogna ristabilire alcuni dati di realtà che sono stati spazzati via dalla sua pesante sconfitta alle presidenziali del 1980.
Jimmy Carter è stato sin da allora abbinato all’idea di sconfitta per essere debole, impopolare e poco carismatico contro un messaggio positivo e ottimista propugnato dal suo oppositore Ronald Reagan, che avrebbe anche rilanciato la forza dell’America contro l’avversario sovietico.
Ebbene, Carter non è stato questo, anzi. Semplicemente era troppo avanti per i suoi tempi e non venne adeguatamente compreso. Un articolo del Wall Street Journal pubblicato nel 1989 lo riconosceva sin dal titolo: “Jimmy, ti abbiamo conosciuto appena”. Forse per una nazione uscita dal glorioso trentennio di crescita ininterrotta bruscamente interrotto dalla crisi petrolifera e dalla sconfitta in Vietnam era troppo sentirsi parlare della necessità della transizione ecologica, del dovere di ridurre i consumi di carburante sia per il riscaldamento casalingo che, per quanto riguarda l’uso dell’auto, uno dei pilastri dell’American Way of Life. Carter fu anche incredibilmente onesto durante la sua prima campagna elettorale nel 1976, quando ammise candidamente in una lunga intervista pubblicata sul magazine Playboy che aveva “guardato molte donne con desiderio nel corso degli anni”, un’onestà che altri politici avrebbero trovato sconsiderata.
Eppure, questo suo progressismo ambientale non rispecchiava un dirigismo economico di fondo, tutt’altro: in vari incontri con gli esponenti delle varie associazioni imprenditoriali, ricordò sempre il ruolo fondamentale dell’impresa nello sviluppo economico del Paese. Era sempre stato consapevole che ormai il vecchio welfare pesante risalente all’epoca del New Deal era ormai superato e che occorreva quindi un rilancio del ruolo del privato. Fu anche l’autore di due piccole, ma significative, liberalizzazioni: in primis quella del trasporto aereo, togliendo ogni controllo dall’alto al prezzo dei biglietti, mossa che ha consentito poi la nascita delle compagnie low cost che hanno reso popolare la possibilità di volare un tempo riservata solo alle classi sociali più abbienti. Inoltre, abolì una vecchia norma risalente all’epoca del Proibizionismo che non consentiva la produzione artigianale di birra, creando da zero una nuova attività economica tuttora molto vivace.
Anche in politica estera fu più efficace di quanto comunemente si pensi: ufficiale navale di formazione, rinnovò la marina da guerra costruendo nuovi sommergibili per evitare che l’Unione Sovietica conquistasse la supremazia sui mari. Rilanciò la difesa dei diritti umani come punto nodale dell’azione nei confronti dei paesi comunisti dell’Est Europa, sostenendo attivamente la formazione di Charta 77, un movimento riformatore in Cecoslovacchia guidato dal futuro presidente Vaclav Havel. Infine, nel 1978, fu il mediatore decisivo di uno storico trattato di pace tra Israele ed Egitto.
E allora come mai da un certo punto in poi andò tutto male? Perché fu il primo testimone del crollo dell’ordine internazionale post-bellico. L’Iran, che lui aveva definito “un’isola di stabilità” nel Medio Oriente, venne travolto dalla rivoluzione degli Ayatollah. L’Unione Sovietica si lanciò nell’invasione dell’Afghanistan, ragione per cui il 23 gennaio 1980 varò la cosiddetta “Dottrina Carter” per la difesa strategica degli interessi strategici americani nell’area. Questi eventi vennero attribuiti a una sua percepita “debolezza”, specie per non aver aiutato il regime autoritario di destra dei Somoza in Nicaragua e per aver tagliato, almeno in parte, i ponti con altre dittature simili nel continente americano.
Gli americani non erano ancora pronti per le scelte che oggi, a condizioni peggiori, hanno comunque dovuto fare. Però adesso, quando quei tempi sono ormai lontani, bisogna riconoscergli di aver visto lontano, forse con troppa preveggenza per convincere l’opinione pubblica.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)