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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

La Liguria è ancora una regione del Nord? Apriamo il dibattito

‘Piazza Levante’ ha deciso di sentire più voci, aprendo un confronto per consentire ai lettori di farsi un’opinione documentata: partiamo con Guido Conforti di Confindustria
Il porto di Genova è sempre trainante per l'economia ligure
Il porto di Genova è sempre trainante per l'economia ligure
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Recentemente è stato pubblicato per i tipi di Erga Edizioni un saggio del professor Maurizio Conti dal titolo ‘La Liguria è (ancora) una regione del Nord?’, di cui pubblichiamo qui di seguito la scheda.

La tesi di fondo, che ha avuto grande rilievo di stampa e che in questa fase si è prestata anche a qualche strumentalizzazione politica, è che la nostra regione sia ormai distaccata dalle altre regioni del Nord e viva un pronunciato declino economico.

Poiché il tema è ‘spesso’ e non va banalizzato buttandolo in politica, Piazza Levante ha deciso di sentire più voci, aprendo un confronto per consentire ai lettori di farsi un’opinione documentata.

Iniziamo con il contributo di Guido Conforti, Direttore Generale di Confindustria Genova e Confindustria Liguria, e testimone diretto delle vicende economiche liguri degli ultimi 30 anni.

LIGURIA IN DECLINO? DUBBI E PERPLESSITÀ DI UN MODERNO SANCHO PANZA

di GUIDO CONFORTI *

Come molti ricorderanno, Sancho Panza è lo scudiero di Don Quijote, l’eroe del primo romanzo moderno, al quale Cervantes affianca un servitore al tempo stesso fedele e pragmatico, in grado di avvertire il suo cavaliere su come stanno le cose nella realtà e al di là delle sue personali fantasie; così come accade nel famoso episodio dei mulini a vento, scambiati per giganti da passare a fil di spada.

La pubblicazione del saggio di Maurizio Conti, professore di Economia Politica all’Università di Genova, dal titolo suggestivo “La Liguria è (ancora) una regione del nord?” presenta alcuni motivi di oggettivo interesse: anzitutto per l’argomento che affronta, quindi per la dovizia di dati a sostegno delle analisi che vengono svolte e infine per il dibattito che ha saputo immediatamente innescare, almeno tra gli addetti ai lavori; dibattito in qualche modo alimentato e sostenuto dalla coincidenza con le prossime elezioni dell’amministrazione regionale.

Prescindendo da quest’ultimo aspetto – che, come spesso capita in Italia, procede per riflessi pavloviani dei singoli interessati che prescindono da un confronto aperto sul merito delle questioni -, da una lettura attenta del libro più di una volta la figura di Sancho Panza mi è venuta in soccorso per chiedermi se credevo davvero a quello che stavo leggendo; uscendo dalla metafora letteraria, mi sono chiesto più volte se il tema fosse trattato in maniera efficace per rappresentare la realtà e le sue possibili evoluzioni.

La tesi di Conti, in estrema sintesi, è che negli ultimi quarant’anni la Liguria sia entrata in un trend di progressivo declino nel quale, se non cambierà rapidamente la rotta, fatalmente perderà i motivi di permanenza nel contesto socio-economico del nord.

Ora, io non sono certo né un cavaliere in cerca di gloria né un docente di economia, ma l’avere vissuto questi stessi quarant’anni all’interno delle dinamiche economiche, urbanistiche e sociali che li hanno caratterizzati, mi porta a dire senza mezzi termini che a mio giudizio l’analisi di Maurizio Conti è fuorviante; essa, infatti, ignora le caratteristiche del tutto particolari del territorio ligure e procede in un confronto con le dinamiche riscontrate nelle altre sette regioni settentrionali che non considera le effettive vicende dei diversi sistemi produttivi. Ma soprattutto sottovaluta l’impatto che le dinamiche demografiche hanno avuto sui parametri che dovrebbero giustificare “il declino”: redditività, produttività, dimensione delle imprese, qualità del capitale umano, comprese le capacità imprenditoriali e manageriali che secondo l’autore avrebbero un ruolo di rilievo in tanto disastro.

Conti non è certo il primo a cimentarsi nel raccontare questo supposto declino e come normalmente si fa, sia che si parli della Liguria come di Genova (le cui dinamiche sono paradigmatiche dell’andamento regionale), parte proprio da un dato demografico, ossia dall’avvio della diminuzione del numero dei residenti che nel caso della regione Liguria riporta al 1974, caso vuole proprio l’anno in cui Conti è nato.

Quello che normalmente non si fa, invece, sarebbe di riportare indietro il calendario di un altro ventennio per scoprire che, ad esempio, nel 1951 la popolazione della Liguria era di 1.567.000 abitanti, molto prossima a quella attuale.

Cosa è successo nel mezzo, cosa ha provocato – caso unico in tutto il nord – un aumento e quindi una perdita di popolazione residente di oltre il 20%? L’inadeguatezza degli imprenditori e dei manager, degli amministratori pubblici, dei grandi rentier, scelte sbagliate di politica industriale, l’incapacità del sistema formativo, l’insufficienza degli investimenti, le condizioni generali del contesto competitivo, la sfortuna?

Io credo che la somma delle possibili ragioni negli ambiti sopra citati, unita ad altre di ulteriore dettaglio che possono essere aggiunte, non siano paragonabili agli effetti che le dinamiche demografiche hanno dato, stanno dando e daranno nei prossimi anni; tanto per avere sottomano alcuni numeri che riguardano il futuro, in base alle esclusive proiezioni del saldo naturale degli attuali residenti, in Liguria la popolazione in età da lavoro tra i 20 e i 64 anni scenderà di 76.000 unità (-9%) al 2030 e di 218.000 unità (-26%) al 2040.

A loro volta le dinamiche demografiche della Liguria dal dopoguerra ad oggi sono state innescate dallo sviluppo dell’industria manifatturiera che ha richiamato enormi quantità di forza lavoro residente e che, proprio a partire dagli anni ‘70 ha poi cominciato ad espellere all’interno di un processo che, al contrario di quanto si ripete di continuo, non è affatto di de-industrializzazione, bensì di diversa collocazione spaziale degli insediamenti produttivi in regione delle caratteristiche del tutto atipiche del territorio ligure.

Ciò che aveva motivato fin dalla metà dell’Ottocento e poi negli anni del “miracolo italiano” la nascita delle fabbriche a Genova e in Liguria, ossia la prossimità al porto (o meglio ai porti) ne ha anche rappresentato i limiti: limiti spaziali appunto, perché la differenza peculiare che distingue da tutte le altre regioni del nord è l’assoluta scarsità di risorse territoriali in grado di ospitare (in condizioni di competitività) grandi insediamenti dell’industria di base, che infatti nei quarant’anni del “declino” è tutta scomparsa, almeno dai contesti costieri: impianti siderurgici, metallurgici, raffinerie, colorifici, perfino industrie alimentari perché non è scontato fabbricare caramelle, biscotti o cioccolato all’interno di quartieri popolosi. Tuttavia, per la maggior parte, le aziende proprietarie di questi insediamenti produttivi non sono fallite, ma si sono organizzate diversamente nella propria catena del valore.

Anzitutto, in molti casi si sono rilocalizzate (o hanno rilocalizzato solo gli impianti industriali lasciando in Liguria le funzioni direzionali) nelle vallate interne delle Valli FontanabuonaScriviaSturaBormida e soprattutto in pianura padana, in particolare nell’alessandrino; in base a studi che ho seguito personalmente, oltre 200 imprese iscritte all’Associazione Industriali della Provincia di Genova, in massima parte private a riprova che l’appiattimento dell’analisi su quanto successo alle aziende a partecipazione statale è un’estrema semplificazione. Si dice che se Napoleone avesse vinto a Waterloo e se la geografia italiana, oltre che europea, fosse diversa, se quindi Monferrato e dintorni fossero tutt’ora Liguria, staremmo a raccontare una storia diversa, anche da parte degli studiosi di macroeconomia.

Ma così non è e quindi il racconto di Conti procede con altri schemi, per esempio con gli schemi anch’essi fuorvianti dei codici ATECO, all’interno dei quali scompare magicamente ogni fenomeno di outsourcing da parte delle imprese industriali le quali, finché hanno al loro interno funzioni e personale dedito – ad esempio – alla progettazione, alla ricerca e sviluppo, alla logistica, alla gestione dei dati, al marketing, alla comunicazione producono valore aggiunto e occupazione “industriale”, mentre in caso di esternalizzazione delle stesse funzioni per la produzione degli stessi manufatti, queste vanno ad arricchire il settore dei servizi, senza alcuna logica di sostanza. Per non parlare della stessa diversa articolazione delle fase produttiva vera e propria, negli stessi quarant’anni che hanno visto esplodere il fenomeno della globalizzazione e che plasticamente indica come i traffici portuali e la logistica conseguente siano parti integranti di un unico sistema industriale destinato alla produzione di beni, articolato in specifiche specializzazioni.

Ai novelli Don Quijote si può mostrare senza alcuna difficoltà l’evidenza che a Genova e in Liguria “industrializzazione” non può più voler dire riservare aree industriali inesistenti per lo sviluppo di attività manifatturiere di base e di grandi dimensioni, ma piuttosto sviluppare quelle funzioni considerate non industriali solo per la statistica come la logistica portuale o lo sviluppo di nuove tecnologie, quell’high tech che una visione aberrante distingue tra industria e servizi in funzione dei codici ATECO delle singole aziende. E oltre a questo, “industrializzazione” vuole dire sviluppare per le loro potenzialità quelle funzioni produttive che necessitano dell’affaccio al mare: cantieristica e riparazione navale, nautica, produzione di grande impiantistica destinata all’esportazione, per la quale è emblematico il prototipo dello stabilimento a Cornigliano di Ansaldo Energia.

Sotto altro profilo, un aumento demografico del 20% ha dapprima comportato un proporzionale ipersviluppo delle attività edili; si sono costruiti (anche male o malissimo) nuovi quartieri residenziali e oltre a questo si sono sviluppati tutti i settori per la produzione di beni e servizi ad uso della popolazione residente; attività economiche che viceversa, con lo sboom demografico, hanno visto successivamente sgonfiarsi il proprio mercato di una percentuale analoga.

Fatto 100 il fabbisogno di dentisti, falegnami, mercerie o attività analoghe, un calo progressivo del mercato di oltre il 20% ha fatto sì che i fenomeni ben descritti da Conti (perdita di redditività, crollo della produttività, nanismo delle imprese, mancanza di innovazione ecc.) potessero scatenarsi, con i risultati che sono sotto agli occhi di tutti. Per questo, lungi dal pensare di vivere nel mondo migliore possibile, l’obiettivo primario deve essere quello di invertire le dinamiche demografiche evitando di pensare che sia risolutivo il tema (per quanto eticamente serissimo) della natalità.

L’unica soluzione strutturale ai problemi della Liguria passa da rendere sempre di più la regione un luogo attrattivo per motivi di residenza e di lavoro: quanto più qualificati e a potenziale elevato ben venga, ma oltre a ingegneri e data scientist oggi si fa fatica a trovare saldatori, autisti, cuochi e tutte le altre mansioni che la banca dati Excelsior del sistema camerale ci ricorda puntualmente.

Per un altro aspetto centrale il racconto di Conti è fuorviante e mi riferisco a quella parte in cui mette in contrapposizione occupazione nei settori ad alto valore aggiunto con quelli a basso valore aggiunto (v. alcuni tipi di turismo, per esempio quello crocieristico) o con forti esternalità (v. il traffico portuale).

Fermo restando che tutto quanto può essere fatto deve essere fatto per dare priorità ai primi con progetti e programmi di attrazione congruenti, è tutto da dimostrare se non avventurandosi in cervellotiche valutazioni costi/benefici con le quali si può dimostrare “tecnicamente” quello che si vuole (sul punto il Governo Conte 1, grazie ai suoi formidabili esperti, conquistò la cintura nera come capacità di bloccare ogni intervento infrastrutturale relativo anche alla realtà ligure) che tali contrapposizioni esistano nella realtà.

L’epocale stagione di interventi sui sistemi di trasporto relativi a persone, merci e informazioni serve proprio a evitare tali contrapposizioni; evitare di scegliere se dare preferenza a un turista, a un container o a un genitore che vuole portare suo figlio a scuola.

Per il futuro dovremmo quindi evitare queste contrapposizioni grazie a infrastrutture e fattori abilitanti per sviluppare politiche di attrazione, settori economici, riconoscibilità e relazioni in un contesto nazionale e internazionale, a partire dal Mediterraneo; avere ambizioni alte e pensare in grande, perché piccolo non è bello se non inserito in una filiera, in una rete, in progetto scalabile.

Infine, visto che si parla di demografia e quindi di persone, dovremmo curarci delle persone e del loro benessere, delle loro capacità e dei loro diritti; occuparci di creare cultura e non soltanto offrirla per il consumo, insieme alle manifestazioni di folklore.

Se questa visione un po’ alla Sancho Panza fosse convincente, l’obiettivo programmatico della società ligure dovrebbe essere in primo luogo quello di compensare anno dopo anno con la positività del flusso migratorio la strutturale negatività del saldo naturale.

En passant, quello che per la prima volta da anni, nel 2023 è perfino accaduto….

(* Direttore Generale di Confindustria Genova e Confindustria Liguria)

LA SCHEDA DEL LIBRO:
MAURIZIO CONTI
LA LIGURIA È (ANCORA) UNA REGIONE DEL NORD? Erga Edizioni, 2024
Il saggio esamina l’andamento macroeconomico della regione Liguria negli ultimi quarant’anni, con particolare riferimento ai dati del prodotto interno lordo, della popolazione, del mercato del lavoro nel confronto con le altre regioni del Nord Italia.

Ulteriori approfondimenti riguardano la struttura dimensionale delle imprese liguri, l’esame dei principali settori produttivi, i sistemi locali del lavoro e l’impatto atteso del PNRR sull’economia.

Il quadro che ne esce è indicato come rappresentativo di un progressivo distaccamento dagli indici di sviluppo del Nord e l’autore svolge alcune proposte di politica economica in grado di invertire le attuali tendenze, consentendo di mantenere l’aggancio con la parte più competitiva del Paese.

Maurizio Conti è professore ordinario di Economia Politica all’Università di Genova. Dal 2022 è coordinatore del corso di laurea magistrale in Economics &Data Science.

I suoi interessi scientifici si orientano sulle analisi di impatto delle politiche pubbliche, sull’economia del lavoro, industriale e regionale.

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