Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.
di MATTEO MUZIO *
L’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, avvenuto il 22 novembre 1963 a Dallas, ha segnato una cesura nell’immaginario collettivo. Senza di esso però, probabilmente avremmo percepito la presidenza del ricco rampollo di una prominente famiglia di origine irlandese basata a Boston sotto un’altra luce. In un’intervista pubblicata su Life Magazine il 5 dicembre 1963, Jacqueline Kennedy dichiara al giornalista Theodore White una frase enigmatica: “Per un breve momento splendente, c’è stata Camelot”.
In questa breve frase si incarna quello che è stato nei decenni mito kennediano, un’idea di America rigenerata attraverso la leadership carismatica e visionaria di un presidente giovane come John Fitzgerald Kennedy, intenzionato a risollevare il prestigio Usa attraverso un’immagine ripulita, che cerca di superare una lunga storia di violazioni dei diritti umani nei paesi dell’America Latina e l’onta della segregazione razziale in Patria attraverso un ristabilimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, abbinata a una vigorosa difesa della democrazia all’estero, inclusi i paesi della sfera d’influenza sovietica.
Questa narrazione risente però di stantio. La ricerca storica anche nell’ambito del controfattuale è spietata nei confronti del Mito: non sappiamo, ad esempio, se Kennedy sarebbe stato efficace come il suo successore nell’approvare un vasto programma di leggi di smantellamento della segregazione razziale, né se si sarebbe comportato in altra maniera riguardo il coinvolgimento militare in Vietnam, che costò molto caro alla reputazione del suo successore Lyndon Johnson e dello stesso partito democratico. Eppure, il Mito è sopravvissuto, prima incarnato dal populismo progressista del fratello Bobby e poi dalla lunga carriera da senatore dell’altro fratello, Ted, rafforzando anche la sensazione da “dinastia regale” statunitense. Un concetto drammaticamente errato, se pensiamo soltanto alle due presidenze Bush tra gli anni ’90 e 2000.
Questo racconto edulcorato ha nascosto una sostanziale continuità nell’uso disinvolto dello strumento golpistico per risolvere questioni interne di paesi alleati, come nel caso della rimozione violenta del presidente sudvietnamita Ngo Dinh Diem. Un colpo di stato avvenuto il 2 novembre 1963, soltanto venti giorni prima della tragica morte del presidente Kennedy. L’omicidio poi è ha dato inizio alle prime teorie del complotto che venivano citate al di fuori di ambiti politici estremi. I risultati della commissione Warren, resi pubblici il 27 settembre 1964, non convinsero l’opinione pubblica. L’idea che Lee Harvey Oswald avesse agito da solo sembrava impossibile, anche se ci fu sempre un assassino solitario e non del tutto a posto con il cervello a uccidere altri due presidenti come James Garfield e William McKinley a cavallo tra Otto e Novecento. L’assassinio incrina la fiducia nelle istituzioni pubbliche, sempre più viste con sospetto non soltanto da una parte radicale del mondo progressista, ma anche da una parte della destra conservatrice che in quegli anni si stava sviluppando come una fusione lenta ma inesorabile tra il vecchio mondo del business del Nord con il “conservatorismo rabbioso” sviluppato all’interno dei democratici sudisti, che si sentivano traditi proprio dalla svolta di Kennedy.
Più di recente, il nome Kennedy è principalmente legato a Robert Junior, candidato indipendente alle presidenziali del 2024 e noto per essere il più famoso influencer novax del mondo. Anche lui è stato gradualmente influenzato da una visione del mondo sempre più inquinata da cupe teorie del complotto, nate proprio dopo l’omicidio dello zio e del padre Bobby, avvenuto nel 1968, alla vigilia delle presidenziali di quell’anno. Un’eredità che di certo non sarebbe piaciuta a chi scese in politica incarnando una forte idea di cambiamento pur provenendo da una famiglia ricca e con forti radici nella società del Massachusetts della prima metà del Novecento. E che veniva accusato di tradimento dalla John Birch Society, un’associazione di estrema destra che diffuse numerose teorie bizzarre, come quella che Eisenhower fosse un agente sovietico. Un mito che ormai cammina sulle gambe di un arcinoto cospirazionista: certo non una fine gloriosa per un’immagine che per anni ha evocato un particolare tipo di fascino.
(* giornalista e fondatore del portale ‘Jefferson – Lettere dall’America)