di FABRIZIO DE LONGIS
“Che stipendio ha il presidente di una provincia?”. È questa la domanda da cui a caduta si aprono i discorsi sul futuro della politica che siede a metà strada fra i comuni e la regione.
Nei corridoi di via Fieschi cresce con costanza l’attenzione verso quella che è una parte centrale della riforma federalista prevista dal ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli: ossia, il ripristino delle provincie elettive, con la cancellazione delle attuali Città metropolitane.
Insomma, un bel colpo di spugna al simbolo (spesso negativo) della legislazione Delrio.
Riforma su cui Calderoli ha recentemente messo il veto. O si fa, o si dimette.
La criticità amministrativa dell’attuale forma istituzionale e gestionale della Città metropolitane è diventata evidente da tempo, oramai. E spesso sulla pelle dei cittadini. Un organo elettivo di secondo grado (in breve: politici eletti fra e da i politici eletti), che ha oramai poco collegamento con il territorio (un pieno ossimoro). E soprattutto dove, nel nostro caso, la sola Genova comanda e pone veti verso territori e cittadini sconosciuti o quasi al sindaco metropolitano. Il quale, nella forma attuale, detiene l’ente nelle proprie mani.
Esempi concreti di questo gioco al rimpallo di responsabilità e di non curanza verso i territori, sono: il depuratore nella colmata a mare di Chiavari e la diga Perfigli prevista sul lungo Entella a Lavagna. Opere per cui la risposta è sempre la stessa: decisioni calate dall’altro, ossia Regione e Città metropolitana, con quest’ultima che sembra essere il vero soggetto attuatore di tali progetti.
Decisioni imposte con i voti di comuni che nulla hanno a che fare con il territorio, sotto l’impronta dirigista della grande Genova.
Così l’eventualità di governare questi processi in maniera diretta (condizione che a oggi di legge ricade su chi siede sullo scranno di sindaco del capoluogo), mette la colina in bocca a molti politici.
Chi dovesse tornare a guidare una provincia elettiva, governerebbe tutti questi processi, in un asse centrale fra le richieste di governo regionale (leggasi lo stile decisionista di Giovanni Toti), e le esigenze del territorio (sindaci, soprattutto dei piccoli comuni, in primis), con la garanzia di potersi assicurare un’influenza dirimente e quindi una lunga e prospera carriera politica.
In questo modo fra i consiglieri regionali radunati a capannelli nelle pause dei lavori del consiglio, si susseguono le domande e i confronti. Se è vero che probabilmente il presidente di provincia guadagna meno di un consigliere regionale, però l’emolumento non è da buttarsi via. “Dovrebbe essere intorno ai sei mila euro al mese”, precisa un autocandidatosi alla futuribile poltrona. “Però non hai il rimborso spese per i viaggi”, precisa un capogruppo. “Sarà vero, ma ha l’autista”, chiosa chi negli occhi comincia a vedersi presidente.
Se da un lato i cittadini lamentano lo scollegamento con i territori, la poca rappresentanza, il dialogo quasi assente e si vedono pignorati terreni e conti correnti (caso della diga Perfigli), o ipotecato il futuro della città (vedasi il depuratore di Chiavari), ai futuri presidenti (o aspiranti tali), interessano molto di più gli aspetti veniali.
Primi fra tutti: lo stipendio e la durata della carriera politica.
Aspetti non da poco per chi di politica vive, e pure bene.
“Va riflettuto con cura. Chi diventa presidente ora, dopo la riforma, ci mette poco a farsi dieci anni in Provincia”, sussurra chi la politica la mastica bene e da anni.
Ed ecco fatto che le aspirazioni si riversano sulla possibilità di governare per dieci anni un territorio. “Perché chi se lo ricorda bene, i presidenti di provincia hanno sempre fatto quello che volevano. Sono i veri padroni dell’ente”, proseguono i politici più esperti che in molti casi hanno già assaporato il decisivo potere di cui godo i sindaci e che dopo diversi anni a sedere in consiglio regionale (dove di potere se ne detiene ben poco, soprattutto rispetto a quello degli assessori regionali), all’idea di gustarne di nuovo, si mettono sull’attenti.
Insomma, il pensiero di una carriera e di un potentato allettano in molti. In specie chi un domani dovrebbe procurarsi un’occupazione. Ma a segnare questa discussione è un non detto cruciale. La domanda con cui molti esponenti, soprattutto del centrodestra, convivono da mesi: chi vincerà le prossime elezioni regionali?
Perché è qui che risiede molto del nuovo interesse verso le desiderate Provincie. In special modo da chi vede una consolidata maggioranza di centro destra nei territori regionali, ma che teme possa non essere riconferma nel 2026, quando (vista proroga Covid) si voterà per le regionali (erano previste nel 2025). In special modo nell’ipotesi in cui a queste elezioni si potrebbe assistere al confronto fra il terzo tentativo di Giovanni Toti e nomi che cominciano a farsi allettati, su tutti quello del sindaco di Bogliasco e parlamentare, Luca Pastorino (forte anche della vittoria diretta nel 2022 nel collegio parlamentare contro un carico importante quale quello dell’ex presidente regionale, Sandro Biasotti).
Nome, quello di Pastorino, su cui ultimamente stanno convergendo molti esponenti della sinistra. A partire dall’ex presidente della regione, Claudio Burlando, di recente ricomparso sulle scene politiche con un importante convegno dedicato alla portualità. Evento di cui la lista dei presenti notabili, si è allungata oltre le previsioni.
E in questo quadro il toto presidenti di provincia comincia a registrane nomi importanti, con assessori di giunta regionale e capigruppo (soprattutto vicini al presidente Toti), che pare sempre più stiano valutando con interesse l’opzione più sicura di un proprio governo provinciale decennale (fra nuovi ingressi e ritorni), rispetto alla scommessa un poco logora della terza corsa totiana alle regionali.
Perché la politica vive dell’adagio che è meglio essere capitani di una scialuppa, che mozzi su una nave. Ma soprattutto, che in ogni circostanza bisogna sempre restare a galla.