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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390
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di ANTONIO GOZZI

La scomparsa di Sergio Marchionne e il messaggio che viene dalla sua straordinaria esperienza di vita e di lavoro ha a che fare con la nostra generazione (lui aveva 66 anni) o meglio con un giudizio su ciò che questa generazione è riuscita o non è riuscita a fare quando è stato il suo momento e si è giocata la sua partita.
La mia tesi è che questa generazione del ’68, la mia generazione, fatte le debite eccezioni (e Marchionne è certamente una di queste) non abbia combinato gran che, e sia stata soprattutto dedita alla parole e ai discorsi più che al fare. Sarebbe fin troppo facile e persino ingeneroso dire: guardate che Italia abbiamo consegnato alle nuove generazioni.
Il vizio culturale, il ‘baco’ rivoluzionario, è stato quello di considerare che giuste idee e giuste analisi (ma erano poi davvero tutte giuste?) avessero di per sé il potere di cambiare la realtà, specie se venivano elaborate collettivamente, trovando nel consenso ‘di massa’ la riprova della loro validità. Salvo ritrovarsi con un pugno di mosche in mano e vivere frustrazioni cocenti non essendo in grado di declinare un principio di realtà.

E così la contrapposizione ai nostri padri fu totale: questi erano, normalmente, uomini di poche parole e di molti fatti, cresciuti con meno strumenti culturali, ma non per questo meno capaci di costruire, o meglio ricostruire dopo la guerra, un Paese ricco e moderno; ciò grazie a uno straordinario senso del dovere e a una propensione fortissima al lavoro.
Furono, i nostri padri, i veri e forse gli unici protagonisti in Italia della costruzione di un efficiente ascensore sociale che cambiò la faccia del Paese allargando la fascia del benessere, trasformando i contadini in operai, i figli degli operai in professionisti, o imprenditori, o insegnanti, creando un vero ceto medio.
Quando sentivano i loro figli parlare per slogan di rivoluzione proletaria rimanevano un po’ interdetti, perché loro in questo Paese una rivoluzione economica, civile e sociale l’avevano fatta per davvero, e non capivano di che cosa si stesse parlando.

Sergio Marchionne era un ragazzo della generazione del ’68, ma i suoi problemi a quel tempo erano assai diversi da quelli dei suoi coetanei italiani impegnati in assemblee studentesche o cortei.
Emigrato a quattordici anni per ragioni economiche presso una zia in Canada, per i primi cinque o sei anni in Nord America il suo problema fu quello di imparare bene l’inglese e farsi accettare dalla comunità locale.
Se un segno c’è di comunanza con i suoi coetanei italiani ‘rivoluzionari’ è l’iscrizione alla facoltà di Filosofia e la laurea in questa disciplina che precedette diversi Master in ‘Business and Administration’ .
Giovane del suo tempo, probabilmente aveva guardato con simpatia ai sogni ed alle illusioni della sua generazione, ma allo stesso tempo aveva colto con lucidità tutta la debolezza di quel pensiero.

Molti anni più tardi in un discorso del 2012 alla Bocconi Marchionne disse:  Ho l’impressione che nel nostro Paese ci sia un atteggiamento passivo nei confronti del presente. È  come se si pretendesse il diritto ad un domani migliore senza essere consapevoli che bisogna saperlo conquistare. Il ’68,un movimento di lotta pienamente condivisibile che ci ha permesso di compiere enormi passi avanti nelle conquiste sociali e civili, ha avuto purtroppo un effetto devastante nei confronti dell’atteggiamento verso il dovere. Oggi viviamo nell’epoca dei diritti: il diritto al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa, il diritto di urlare e sfilare, il diritto a pretendere. Lasciatemi  dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati, ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo”.

Discorso ruvido e visione di vita e professionale che mai piacque a molti dei suoi contemporanei affabulatori più o meno di sinistra o recentemente convertiti al grillismo.
Fu accusato di turpitudini varie: di aver distrutto i diritti dei lavoratori, di essere uno sfruttatore degli operai, di aver licenziato migliaia di dipendenti, di aver delocalizzato fabbriche e produzioni. Gran parte di queste accuse erano false e quanto meno ingenerose ma spiegano molto della psicologia di una parte di Italia, della totale mancanza di consapevolezza dei problemi e del modo di affrontarli e risolverli.

Chi fu e cosa fece in definitiva Sergio Marchionne?
Come detto giustamente da Luciano Capone su ‘Il Foglio’, fu uno che, senza soldi, prese in mano un’azienda morta, la unì ad un’altra anch’essa morta, e trasformò la fusione tra le due in un gruppo in salute, che ha azzerato un debito monstre, che macina profitti e che oggi è l’ottavo player automobilistico mondiale.
E tutto ciò è avvenuto in una congiuntura economica mondiale molto grave, con una doppia crisi, la recessione più lunga del dopoguerra che colpì duramente il settore automobilistico, in particolare in Italia dove la Fiat prevalentemente produceva e vendeva e dove la crisi fu più acuta che in altri Paesi del mondo.
Ma per quale motivo, rispetto a questi risultati incredibili e miracolosi, c’è stata in Italia questa ostilità nei confronti di Marchionne?
Perché rispetto ad uno straordinario risanamento e rilancio industriale vengono sempre evidenziati soprattutto i costi della transizione?
Era possibile ristrutturare un’azienda fallita senza costi e senza cambiamenti radicali? Perché negli USA, dove ha usufruito degli aiuti del governo Obama (tutti ripagati) per rilevare la Chrysler, Marchionne è visto da tutti come un salvatore dell’industria automobilistica e in Italia come uno sfruttatore dei lavoratori?
E qui si ritorna all’inizio. Nei giornali, in gran parte del sindacato, in larga parte della politica prevale un approccio non di rottura, consociativo, rivolto al passato, in cui i leader e le leadership vengono vissuti sempre con sospetto e  invidia.
Gli eredi del ’68 non riescono ad accettare i mercati aperti, la durezza della competizione internazionale tra aziende e tra paesi, la globalizzazione che non è una scelta politica ma un dato di fatto. E soprattutto non possono accettare che uno di loro, uno della loro generazione, indichi a tutto il Paese una strada riformista da percorrere per sopravvivere ed adattarsi in un mondo ostile.
Meglio ripiegarsi su se stessi, preferire la chiusura alla competitività, l’assistenzialismo alla produttività, il protezionismo alla competizione internazionale.
I pochi, per la verità tutti più giovani di lui, che compresero bene il significato e la portata del messaggio di Marchionne e cercarono in ogni modo di aiutarlo e sostenerlo, da Matteo Renzi al sindacalista della CISL Bentivogli, vennero considerati e tacciati come traditori.
Povera Italia!
Ciao Sergio, ci mancherai.

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