di ALBERTO BRUZZONE
Aspettava quell’unico giorno al mese come un’epifania, come un grande evento, come la mattina di Natale. Malpreso com’era, per via dell’acetone, il piccolo Abramo già da quando aveva tre anni si era visto recapitare dal suo pediatra la prima sentenza difficile della sua ancor breve vita: niente patatine fritte, niente cioccolata, niente gelati. Al massimo una ‘pazzia’, per una volta ogni trenta giorni. Una a scelta tra il dolce e il salato, mica tutte assieme, ci mancherebbe altro.
Così Abramo, ogni volta diventando più piccolo di quel che era, si era arreso a dover fare merenda con banane, mele, al massimo qualche pezzo di focaccia, mentre gli altri bambini si sbafavano senza troppi complimenti patatine chips, barrette Kinder, cornetti Algida e biscotti Motta uno dietro l’altro, come se non ci fosse un domani.
Che poi, lì per lì, un paciugo al mese poteva fare un effetto relativo. Ma pensare a dodici-paciughi-dodici lungo tutto l’arco dell’anno lasciava invece intendere, perfettamente, la natura e l’entità della sua pena.
Quel marzo del 1986, quando Abramo aveva otto anni, il giorno dei suoi Baccanali era capitato di mercoledì. Numero 19, San Giuseppe, festa di tutti i papà. Era un evento nell’evento: perché solitamente quella botta di vita e di golosità se la concedeva col padre, ma qui, in più, accadeva tutto nel dì di festa.
Così quando Abramo era uscito da scuola alle 16,30 di quel pomeriggio non stava più nella pelle. Barelios, il suo adorato papà, gli aveva promesso un gelato da dieci e lode. Mica uno di quelli confezionati che vendevano al Circolo. Mica in una gelateria a caso, la prima che capitava. “Andiamo in via Luccoli, dove fanno il pinguino migliore di Genova”, gli aveva detto qualche giorno prima, ribadendo l’intenzione anche la mattina stessa, al momento di salutarlo all’ingresso di scuola.
“Papà, ma cos’è questo pinguino – aveva risposto Abramo – Io voglio un gelato, mica in pinguino”. “No Abramo, non è un pinguino vero, nel senso dell’animale. È un cono gelato che, una volta fatto, viene immerso in una vaschetta con il cioccolato caldo e diventa tutto ricoperto”.
Evvai, aveva pensato Abramo: un paciugo nel paciugo. Regalo più bello non avrebbe potuto chiedere. C’erano tutti gli elementi per un pomeriggio da ricordare: gelato super, la scoperta del pinguino, la festa del papà, la gita in auto attraverso le gallerie di piazza Portello che – chissà perché – gli piacevano da morire, al punto da chiedere ai genitori di essere portato lì tutte le domeniche pomeriggio.
Pronti via, Barelios e Abramo partirono. Si ritrovarono a parcheggiare in piazza Caricamento, presero per piazza Banchi, quindi imboccarono via Luccoli. La gelateria era proprio lì, all’inizio della strada. Un negozietto minuscolo, con il banco frigo sulla destra, le piastrelle in ceramica 10×10 ai muri, bianche e azzurre come usava una volta, una porticina in fondo dove c’era il laboratorio del gelataio.
Abramo attese il suo turno e ordinò: “Vorrei un cono stracciatella e pistacchio, con sopra il pinguino”. Erano i suoi gusti preferiti. Sempre quelli. Il gelataio lo guardò da sotto i suoi occhiali con un fare da maestrino: “Non posso fartelo, perché questi gusti non legano”.
Ma cosa vuol dire non legano? Prima la stranezza del pinguino, poi questa storia che i gusti non legano. Non è che il papà si era sbagliato su ’sta storia del pinguino? A sentirsi dire questa frase Abramo, un bambino di otto anni, rimase senza parole. Non sapeva cosa rispondere, perché proprio non aveva gli elementi per rispondere. Vedeva solamente svanire il suo gelato super e iniziava a venirgli un po’ di groppo in gola.
Barelios lo vide, lo capì subito e si oppose fieramente all’inflessibile gelataio: “Ma come non legano?”. E il negoziante rispose, senza dare troppe spiegazioni: “Con stracciatella e pistacchio il pinguino non si può fare, mi dispiace. Non viene”. Messaggio recapitato. Al papà di Abramo bastavano trenta secondi. “Va bene, non si preoccupi. Arrivederci”.
Un saluto premonitore? Esattamente così, per via di quello che accadde dopo. “Non ti preoccupare – disse Barelios al figlio – ti porto da un’altra parte. Avrai il tuo gelato, te lo prometto”.
Gli prese la mano e s’indirizzarono verso piazza Lavagna, dove c’era un’altra buonissima gelateria. Di nuovo avanti Abramo: “Vorrei un cono stracciatella e pistacchio, con sopra il pinguino”. E il gelataio, senza dire nulla, prese il cono, gli mise intorno un tovagliolino, lo riempì di stracciatella e pistacchio. Sembrava il prete al momento dell’Offertorio, si muoveva con la stessa sacralità.
Poi, per terminare il rituale, scoperchiò una vaschetta che aveva alla sua sinistra, capovolse il gelato e ve lo immerse sino al bordo del cono. Con una scenografica manovra lo roteò e lo servì ad Abramo.
“Quant’è?”, domandò Barelios. “Mille e cinquecento lire”, rispose il commerciante. “Grazie, papà”, disse il bimbo, con gli occhi pieni di gioia. “È di una bontà infinita, avevi ragione. Viva il pinguino!”. E lui: “Non mangiarlo di corsa, che poi ti senti male. Vieni, andiamo ancora in un posto”.
Uscirono da piazza Lavagna e ripresero via Luccoli. Ecco il senso di quell’arrivederci detto pochi minuti prima da Barelios. Entrarono nella prima gelateria: “Scusi, ha visto che il pinguino con stracciatella e pistacchio si può fare? Ha visto che esiste? Buona serata”.
L’ossuto e occhialuto gelataio, che sembrava veramente il cattivo dei cartoni animati, rimase con tanto di naso. “E adesso andiamo a comprare un Lego”, chiuse Barelios.
Agli occhi di Abramo, il suo papà sembrava davvero come i supereroi dei film: che sconfiggono i malvagi e fanno sorridere i bambini. Quel pinguino era la sintesi di tutto: se lo gustava una leccata dietro l’altra e intanto pensava a quanto fiero fosse del suo papà.
“Grazie di tutto”, gli disse stampandogli un bacio sulla guancia barbuta. “Però, ora mi porti dalle gallerie?”.